1. FRANCO PELELLA: LA LUNGHISSIMA DURATA DELLA QUESTIONE MERIDIONALE

    By Franco Pelella il 14 Sep. 2022
     
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    Il ritorno della lunga durata nella ricerca storica

    Il Manifesto per la storia degli storici statunitensi David Armitage e Jo Guldi (1) ha denunciato la crisi profonda che attraversa questa disciplina. Già dopo la pubblicazione della prima edizione, nell’ottobre del 2014, esso ha suscitato grande interesse e reazioni contrastanti sia in ambito accademico che nei media di tutto il mondo, come raramente si è visto per un libro di storia, divenendo da subito un caso editoriale (2). La tesi centrale è la guerra al cosiddetto short-termism, il virus che secondo gli autori, in un arco di tempo compreso tra il 1975 e il 2005, ha contaminato la ricerca storica; le cause di questa svolta vengono fatte risalire da Armitage e Guldi a vari fattori: in primo luogo l’affermarsi a livello internazionale nel corso dei primi anni settanta di una nuova generazione di storici – cresciuti nelle università europee dopo i fermenti del 1968 – che «avevano sperimentato un approccio al passato molto diverso da quello dei cultori della longue durée della generazione precedente» (3). In secondo luogo l’abbandono delle prospettive di lunga durata e il culto del «Passato breve» che ha prodotto la nascita di «quella scuola fondamentalista fautrice della necessità di restringere gli orizzonti temporali che venne definita “microstoria”» (4).
    Il crescente sospetto per le grandi narrazioni da un lato, la tendenza a privilegiare la «storia dal basso» da un altro, mettendo in secondo piano la storia delle élites, ha aperto la strada a una successiva serie di «svolte» che è stata descritta dagli autori seguendo questa sequenza concatenata di passaggi: la svolta linguistica (5) ha spianato la strada a un’ampia ripresa della cultural history (6) per arrivare alla storia transnazionale, a quella imperiale e alla storia globale (7). Ma Armitage e Guldi hanno anche sostenuto che è in atto un ritorno alla lunga durata che si è manifestato nella storiografia internazionale negli ultimi anni come conseguenza delle riflessioni che si sono sviluppate in relazione ai cambiamenti climatici e più in generale alla difesa dell’ambiente; potendo utilizzare una gamma sempre più ampia di documenti digitalizzati e big data la storia può offrire strumenti interpretativi sul futuro della sostenibilità, può analizzare le cause che hanno ostacolato il percorso delle singole comunità nazionali verso la realizzazione di una società più giusta e più ecologicamente equilibrata, può indagare la storia dell’Antropocene e può far emergere le responsabilità di quanti hanno lavorato nelle ultime decadi alla sistematica distruzione dei beni comuni prodotti nel corso dei secoli passati (8).
    Le potenzialità euristiche di un ritorno alla storia di lunga durata riguardano anche i problemi della governance internazionale: qui l’attenzione di Armitage e Guldi è indirizzata a quei processi che negli ultimi cinquant’anni hanno profondamente modificato il rapporto tra istituzioni politiche, istituzioni economiche sovranazionali (il Fondo monetario internazionale, l’Organizzazione mondiale del commercio, la Banca mondiale e altri organismi internazionali per lo sviluppo del credito e del commercio così come dell’imprenditoria) e i grandi gruppi economici operanti su scala globale; in pratica, da tempo non sono più i leader politici riformisti a proporre soluzioni per il futuro delle società ma gli imprenditori e gli amministratori delegati delle multinazionali. Partendo da questo tipo di considerazioni gli autori del Manifesto per la storia ritengono che l’azione di questi attori possa essere, in effetti, analizzata nel lungo periodo per capire quanto le logiche imposte da questi gruppi di potere abbiano condizionato le politiche pubbliche (9).
    Analoghe possibilità di sviluppare ricerche di lungo periodo vengono messe in evidenza dagli autori in relazione alle tematiche connesse a una storia della diseguaglianza, superando i due modelli principali che hanno orientato gli studi in questo settore: quello di stampo antropologico e quello, più recente, dell’economista di Harvard Simon Kuznets. Armitage e Guldi si riferiscono in questo caso al lavoro dell’economista Thomas Piketty, autore nel 2014 del fortunato lavoro Il capitale nel XXI secolo (10), il quale ha costruito la sua ricerca sulla raccolta e l’intreccio di una serie ampia e variegata di dati di lungo periodo che ha utilizzato «per sfatare miti storici elaborati dalla disciplina economica in base a rilevazioni riferite a un breve periodo» (11).
    Secondo Armitage e Guldi l’eccesso di produzione di miti e di «storie fittizie» è un’altra delle ragioni della crisi del pensiero a breve termine. Essi alludono essenzialmente alla proliferazione di ricostruzioni «riduzionistiche del passato»: questo tipo di ricostruzioni e la conseguente produzione di «mitologie fondamentaliste sul clima, sulla governance e sulla diseguaglianza» (12) cominciarono a diffondersi nel momento in cui gli storici ridussero il loro campo di osservazione e di studio a periodi sempre più brevi. La crisi delle discipline storiche è iniziata, dunque, secondo loro, nella seconda metà degli anni settanta e si è manifestata in un ripiegamento degli storici su se stessi e nella loro crescente riluttanza a interagire con le istituzioni internazionali e a ricoprire il ruolo di consulenti nelle istituzioni pubbliche, ruolo che è stato progressivamente occupato da economisti e sociologi; tale crisi si è protratta fino agli inizi degli anni duemila. Per gli autori del Manifesto l’isolamento in cui le discipline storiche si sono venute a trovare si è concluso con il ritorno alla longue durée, che pone agli storici una serie di nuove sfide la più ambiziosa delle quali è quella della cosiddetta big history, ovvero una ricostruzione che risale fino alle origini del mondo stesso (13).
    Per i due storici statunitensi la riconquista di una posizione centrale nel dibattito culturale e scientifico richiede agli storici la capacità di parlare a un pubblico sempre più ampio; obiettivo questo che può essere raggiunto con un profondo cambiamento metodologico attraverso l’utilizzo dei big data, la valorizzazione delle opportunità offerte dalle digital humanities o dai software topic-modelling, in grado di leggere automaticamente enormi quantità di documenti, e l’esplorazione dei dark archives (archivi invisibili composti da materiale declassificato). Non si tratta di un semplice processo di sostituzione dei vecchi strumenti del mestiere divenuti ormai obsoleti; Armitage e Guldi ritengono che attraverso il percorso indicato la storia possa effettivamente tornare alla sua missione di «scienza sociale critica» capace di esercitare una funzione di pungolo per le istituzioni e di controllo rispetto alla proliferazione di analisi dei problemi delle società prive di qualsiasi fondamento storico (14).
    Armitage e Guldi hanno precisato, poi, in quale ambito il grande storico francese Fernand Braudel coniò l’espressione longue durée; essa fu generata da una “crisi generale delle scienze umane”, come ha scritto lo stesso Braudel. Alla luce degli odierni dibattiti sul futuro delle discipline umanistiche e delle scienze sociali la natura di quella crisi appare per certi aspetti familiare: un’esplosione di conoscenze, accompagnata da una proliferazione di dati; una generale preoccupazione riguardo ai confini disciplinari; la percezione di una mancata cooperazione fra ricercatori attivi in ambiti di studio contigui; le lamentele per la stretta soffocante di “un umanesimo retrogrado, insidioso”: tutti aspetti di cui si possono trovare paralleli nella nostra epoca. Braudel si doleva del fatto che le altre scienze umane avessero trascurato lo specifico contributo della storia per trovare una soluzione alla crisi, una soluzione che andasse al cuore della realtà sociale da lui ritenuta il punto focale di ogni indagine umana; era essenziale quindi rivolgersi a un orizzonte temporale diverso, a una storia misurata in termini di secoli e di millenni: “la storia di lunga, addirittura di lunghissima durata” (15).
    Per Braudel il concetto di lunga durata faceva parte di una gerarchia di dimensioni temporali che strutturano tutta la storia e che si intersecano senza escludersi reciprocamente; ne aveva fornito una descrizione nella prefazione del 1946 al suo capolavoro, Civiltà e imperi nel Mediterraneo nell’età di Filippo II, uscito nel 1949, illustrando le tre storie che in quell’opera vengono narrate: una storia quasi immobile relativa agli esseri umani che vivono nel loro ambiente fisico; una “lentamente ritmata”, quella degli Stati, delle società e delle civiltà; una infine più tradizionale, centrata sugli eventi, quella evenemenziale, “dalle oscillazioni brevi, rapide, nervose” (16).
    Braudel contrapponeva l’histoire evenementielle alla longue durée non perché la prima potesse affrontare solo l’effimero ma perché era un tipo di storia troppo legato agli eventi; da questo punto di vista, assomigliava al lavoro degli economisti suoi contemporanei, da lui accusati di aver subordinato la loro opera agli affari correnti e agli imperativi politici di breve termine. Un approccio storico così miope, legato al potere e concentrato sul presente, eludeva il problema della spiegazione ed era allergico alla teoria: secondo Braudel mancava sia di distacco critico sia di consistenza intellettuale; per lui la soluzione per tutte le scienze sociali poteva consistere nel rifarsi a modelli e a problematiche del passato, ad esempio al modo con il quale lo studio del capitalismo mercantile era stato affrontato da Marx, il “genio” che aveva creato i primi veri e propri modelli sociali basandosi sulla longue durée storica (17).
    L’adozione dell’espressione longue durée da parte di Braudel riprendeva gli esempi precedenti identificando non tanto le condizioni immutabili e immobili dello sfondo quanto le lunghe durate nella dimensione culturale, con riferimento ad esempio alla civiltà romana, alla concezione dello spazio geometrico, al modello cosmologico aristotelico, che andavano ad aggiungersi alle lunghe durate degli ambienti fisici, dei regimi agricoli e via dicendo; si trattava di creazioni umane nelle quali era possibile scorgere anche fratture determinate da invenzioni o dall’affermarsi di nuove visioni del mondo o tradizioni. Esse avevano una durata senza dubbio maggiore dei cicli economici ma erano significativamente più brevi dell’impercettibile mutamento della forma delle montagne o dei mari o dei ritmi del nomadismo e della transumanza; queste durées non estremamente lunghe potevano essere misurate in termini di secoli ed erano riconoscibili nelle mentalità e non solo nel paesaggio naturale e nell’interazione con esso delle comunità umane (18).

    La Civiltà Appenninica (19)

    La causa vicina dell’arretratezza del Mezzogiorno è la sua mancata partecipazione a quella che gli storici chiamano la ‘rivoluzione borghese dei Comuni’: quella che nel Basso Medio Evo, a partire dal XII/XIII secolo, prima nel Nord e poi nel Centro, vide l’emergere di una nuova classe borghese, imprenditoriale e mercantile, che portò all’affrancamento dei Comuni, intesi appunto come ‘comunità borghesi’, dal feudalesimo e all’affermazione dei nuovi valori dell’individualismo e del successo personale come prova di distinzione, in opposizione ai valori feudali della ‘nobiltà di sangue’ e dell’ereditarietà aristocratica. Tale mancata partecipazione segnò l’inizio di una profonda differenziazione nel destino delle due metà della penisola: soggetto attivo che la nuova classe borghese, nonostante l’eredità feudale e la presenza della Chiesa, spinse verso il futuro, il Nord-Centro; oggetto passivo, docile strumento nelle mani di potenze straniere e locali, il Sud e le isole.
    Preso atto di questo fondamentale spartiacque medievale fra Nord-Centro e Sud lo studioso che dia un senso profondo ed autentico alla nozione delle ‘origini’ di un fenomeno non potrà fermarsi qui ma si domanderà da cosa, a sua volta, possa derivare questa mancata partecipazione del Sud e delle isole alla rivoluzione comunale borghese. Perché nel Sud non vi fu questa fondamentale svolta? Ed è qui, nella ricerca della causa lontana dell’arretratezza del Sud, che si entra nel vivo della questione (20). Occorre anzitutto ricordare le conclusioni di straordinaria importanza che l’archeologia moderna ha raggiunto nei riguardi dell’Italia (e dell’Europa). In particolare, nel periodo della prima Età del Ferro (1000-700), cioè quello che precede ed accompagna la fondazione di Roma, «l’Italia centrale.si presenta […] come la continuazione di quella [del] Bronzo finale» (21) e poiché questa conclusione vale anche per l’Europa (22), dobbiamo considerare l’Età del Bronzo, a tutto diritto, come la diretta matrice delle società europee moderne e, per quanto riguarda l’Italia, della stessa civiltà romana. Prima ancora della fondazione di Roma, dunque, la distribuzione delle facies culturali dell’inizio del Ferro «assomiglia ormai alla divisione amministrativa augustea dell’intera area» (23); nell’«articolato sistema insediamentale [dell’Italia mediana dell’VIII secolo] si può già riconoscere l’organizzazione ‘paganico-vicanica’ tipica delle popolazioni italiche di età storica» (24) e proprio in Italia meridionale è durante la prima Età del Ferro «che giunge a compimento il processo di formazione delle singole unità etniche dell’Italia storica» (25).
    A partire, poi, dall’Età del Bronzo Medio (1700-1150) tutta l’Italia centro-meridionale, più l’Emilia Romagna – con ulteriore estensione, più tardi, anche alle isole e alla Corsica – venne interessata ed unificata da una grande cultura caratterizzata da un’economia pastorale di tipo transumante, detta Appenninica (26). Questa cultura emerse proprio nel Sud, alla fine del III millennio e al principio del II, prima come Protoappenninica (27) poi nel corso del Bronzo Medio raggiunse la sua massima estensione areale come Appenninica e Subappenninica e infine, nel Bronzo Finale e nella prima età del Ferro, con il declino della Cultura Appenninica, la crescente diffusione dell’influenza della Cultura delle Terremare emiliane e l’emergere, in tutta Italia, del Protovillanoviano si divise in due: nell’area del Centro-Sud, a sud del Tevere, prese la forma storica della Civiltà Italica e nel resto dell’area, a nord del Tevere, prese la forma storica della Cultura di Villanova (Emilia, Toscana e Lazio) da cui emersero prima l’Etruria e poi Roma (28). Ma è opportuno anche ricordare la millenaria durata e il grande ruolo, come potente fattore di unificazione, dei tratturi, i percorsi della transumanza dai pascoli estivi appenninici ai pascoli invernali sulle due sponde della penisola. Lo hanno notato gli archeologi per spiegare la diffusione degli stessi aspetti culturali preistorici in tutto il centro-meridione della penisola italiana in questo periodo (29) e lo hanno notato anche i linguisti per spiegare la «forte unità» degli odierni dialetti dell’Italia centro-meridionale (30). Una conoscenza, anche superficiale, della terminologia pastorale dell’Italia centro-meridionale permetterebbe di verificare il suo carattere fondamentalmente unitario e di dimostrare, quindi, che essa non può che derivare dall’unico contesto che vide tutta l’Italia centro-meridionale culturalmente unita in chiave, appunto, pastorale: la Cultura Appenninica del Bronzo Medio (31).
    Inoltre nel Bronzo Finale dell’Italia centrale gli archeologi hanno notato l’inizio di quella «occupazione capillare dell’ecosistema montano con la creazione di insediamenti di sommità che vivevano soprattutto dell’allevamento stanziale e della transumanza», che ha sancito «la separazione tra comunità agricole di pianura e gruppi pastorali di montagna destinata a perdurare in epoca storica» (32); più precisamente, «la dicotomia che le fonti ci hanno tramandato tra Etruschi, Latini e popoli Italici» (33). E fu sempre alla fine del Bronzo che gli archeologi hanno notato «la crescente competizione […] fra le élites», «documentata sia dalla definitiva affermazione del modello di abitato su altura o pianoro difeso che da un aumento di armi nei corredi che indica un generalizzarsi delle attività belliche e predatorie» (34).

    La storica arretratezza economica e sociale del Mezzogiorno

    Spesso gli storici e gli economisti trovano difficoltà a misurarsi col problema dell’arretratezza del Mezzogiorno; secondo l’interpretazione prevalente questo problema data da quasi mille anni e storici ed economisti rifuggono da analisi così estese nel tempo. I primi – con la grande eccezione di Giuseppe Galasso – ritengono in genere che la ricerca debba limitarsi a periodi ben più ristretti, i secondi si limitano all’esame del presente e dell’immediato passato. In tal modo, però, questi studiosi rinunziano a indagare sui processi di fondo che hanno prodotto e riprodotto per secoli l’arretratezza del Sud e spesso trascurano la continuità di questi processi per sottolineare differenze e particolarità di ciascun periodo o regione (35); così perdono di vista quella che Galasso ha chiamato “la sostanziale permanenza di un certo indirizzo degli equilibri (o squilibri) strutturali e sociali” del Mezzogiorno (36). La stessa cosa vale per “l’equilibrio agrario-mercantile” che si impianta sin dal XII-XIII secolo fondandosi su rapporti “di dipendenza e di subalternità” ai “dominatori del grande mercato” europeo e che, come la feudalità, dura fino alla fine del regno di Napoli e lo stesso vale ancora per l’appoggio dato a mercanti e finanzieri stranieri, per la prevalenza dell’investimento immobiliare e in titoli pubblici, per l’importanza data agli status symbol (37). Galasso aggiunse che nell’Italia post-unitaria il divario Nord-Sud era “la prosecuzione di una condizione, di lontana origine, del Mezzogiorno, perpetuatasi attraverso i secoli rispetto alle potenze economiche dell’Italia settentrionale e, poi, anche di altre parti d’Europa” (38).
    Il latifondo dominò sin dall’inizio l’economia del Sud medievale e assunse presto una struttura feudale che durò fino agli inizi del secolo XIX, e in parte fino al 1860, ma anche dopo la sua prevalenza economica continuò fino alla metà del secolo XX; in questi dieci secoli la rendita agraria rimase il reddito fondamentale del Sud da cui quasi tutti gli altri redditi dipendevano, direttamente o indirettamente (39). Dunque nei dieci secoli in cui l’Italia del centro-nord e l’Europa occidentale si svilupparono (dai servi della gleba che scappavano nelle città, intorno all’anno Mille, fin quasi alla fine dell’economia industriale) il Sud rimase povero, agricolo e arretrato. Il secondo fattore, la dipendenza dell’economia meridionale dalle economie esterne più forti, nacque per le politiche che lo Stato unitario del Sud, formatosi nel secolo XII, attuò sin dall’inizio. Per difendere il proprio potere centrale i sovrani repressero l’autonomia delle città e gravarono queste ultime di un peso fiscale intollerabile; così essi distrussero la vita commerciale delle città, unica fonte interna di ricchezza crescente; di conseguenza gli stessi sovrani, per finanziarsi, vendettero tutti i diritti, concessioni e monopoli possibili ai mercanti del centro-nord, e poi di altri Paesi. Ben presto il Sud diventò esportatore di materie prime e importatore di manufatti (40). Il terzo fattore da una parte fu conseguenza dei primi due ma dall’altra fu anch’esso originario. Il cattivo rapporto fra istituzioni e privati nacque con lo Stato unitario del Sud i cui sovrani sin dall’inizio furono dominatori esterni che non rappresentavano i popoli della regione; la loro politica di potenza li rese ben presto succubi dei feudatari e dei mercanti stranieri. Lo Stato finì col diventare il braccio armato delle classi dominanti; esso represse i contadini e impedì la nascita di un ceto medio indipendente e moderno (41).
    I fattori di fragilità della struttura complessiva dell’economia meridionale nel corso del Mezzogiorno moderno (un Mezzogiorno comprendente la parte continentale, la Sicilia e la Sardegna e che va dall’inizio del Viceregno spagnolo nel 1503 alla fine del Regno delle due Sicilie nel 1861) sono stati schematicamente individuati. Essi sono:
    - la prevalenza del sistema feudale, forze produttive e rapporti sociali di produzione condizionati dalla giurisdizione, da un insieme, cioè di diritti-privilegi che gravano sul possesso terriero, formano generalmente la maggior parte della rendita agricola della signoria terriera e frenano la proprietà nella promozione di innovazioni tecnologiche e miglioramenti nella gestione della terra;
    - un’economia agricola fondata prevalentemente sul trinomio cereali-olio-vino, seta, prodotti particolarmente esposti all’andamento climatico, al ciclo epidemia-carestia-epidemia, alla disponibilità di manodopera, al gioco della domanda e dell’offerta internazionali;
    - il deficit quasi permanente della bilancia dei pagamenti e del rapporto import-export;
    - la debole attività manifatturiera, caratterizzata da piccole industrie a domicilio, prodotti semilavorati, scarsa disponibilità di capitali privati per investimenti, assenza di innovazione tecnologica;
    - la dipendenza da operatori d’affari e mercanti stranieri;
    - la pressione fiscale, sproporzionata rispetto alle capacità produttive, una giungla di giurisdizioni differenti e concorrenti sullo stesso territorio: Stato, Chiesa, feudalità laica ed ecclesiastica, comuni, ecc.;
    - un sistema fiscale che sostiene il debito pubblico: cioè non è solo impositivo e squilibrato, perché colpisce in prevalenza ceti deboli e risparmia i ceti dotati di immunità e privilegi, ma anche distributivo perché alimenta la finanza pubblica ed è strumento di introiti per soggetti diversi che investono nelle voci di imposta, del debito pubblico (non solo nobiltà, mercanti, operatori finanziari, ma anche enti assistenziali, opere pie, enti ecclesiastici, ecc.);
    - la persistenza di alcuni di questi caratteri, tra cui la bassa intensità di capitale delle aziende, la committenza statale che le sostiene, la forte esposizione alla congiuntura internazionale, anche nel periodo successivo alla fine dell’antico regime (42).
    Ma anche il sistema sociale complessivo del Mezzogiorno moderno rispecchia, in larga misura, questo quadro della sua economia strutturale. I suoi caratteri possono così, in confronto con il resto dell’Europa, essere individuati:
    - una società di ordini, in cui prevale cioè lo status conferito dalla nascita e dal posto occupato nel sistema gerarchico prescrittivo più che il merito individuale;
    - la progressiva, ma lenta trasformazione, nel corso del Settecento e soprattutto dopo la rivoluzione francese, da società di ordini in società di classi, ma col perdurante peso determinante di ceti formatisi a margine del regime feudale, all’interno del suo indotto e non in opposizione decisa ad esso;
    - la permanente condizione di equilibrio di poteri giurisdizionali che convivono e concorrono sullo stesso territorio, su materie e competenze simili, a volte in collusione a volte in collisione, fino alla divisione dei poteri nel corso dell’Ottocento;
    - le forme di conflittualità e rivolta che, pur avendo origini diverse – contro l’introduzione dell’Inquisizione “alla maniera di Spagna” a Napoli nel 1510 e nel 1547; a impronta prevalentemente profetico-religiosa in Calabria nel 1599; di natura antifiscale e soprattutto con caratteri identificabili con gli interessi politici della capitale in opposizione alla provincia come nella rivolta napoletana del 1647-’48; l’uccisione del vicerè Camarasa in Sardegna; la rivolta e la proclamazione della repubblica messinese negli anni Sessanta del Seicento – sono sempre interne alla società di ordini, non ne sconvolgono il quadro dei rapporti, non mettono in discussione i fondamenti del regime delle terre e degli uomini, sono, in prevalenza, espressione di lotte di fazione;
    - la lenta gestazione di una nuova classe politica a Napoli a partire dalla rivoluzione del 1799, che, scoppiata al culmine del triennio repubblicano, avvicina ancor più Napoli all’Italia e che, cresciuta più tardi in Sicilia tra i moti del 1820-’21 e la rivoluzione del 1848, prepara la gestazione dell’unificazione del paese (43).
    Fino al Seicento la struttura avviata nel medioevo permase incontrastata e consolidò i caratteri pre-moderni dell’economia, della gerarchia sociale, dei valori; nacquero così il familismo amorale, il mancato riconoscimento dell’interesse pubblico, la visione strumentale delle norme e dei suoi apparati (44). Nel Settecento si vide qualche timido tentativo, fallito, di modernizzazione; nel secolo XIX ci furono le leggi eversive della feudalità, dei sovrani napoleonici; quindi gli insediamenti industriali protetti, con capitali stranieri, promossi dai Borboni. Con l’Italia unificata ci fu il primo cambiamento radicale; vennero introdotte l’istruzione elementare obbligatoria; la ferma militare; strade e ferrovie; scuole, farmacie, carabinieri; tutto ciò provocò un certo miglioramento nella vita dei contadini; permise l’emigrazione massiccia, che alleggerì l’oppressione nelle campagne e fece crescere un ceto medio che in parte era indipendente dagli agrari ma fino al secondo dopoguerra l’arretratezza e le sue logiche prevalsero (45).
    Il salto decisivo avvenne solo nella seconda metà del secolo XX; in meno di venticinque anni il Sud passò dalla situazione di miseria e di isolamento descritta da Carlo Levi e da Edward Banfield a un tenore di vita simile a quello raggiunto dall’Inghilterra in più di cento anni di sviluppo. Crebbero i consumi, la scolarizzazione, il lavoro extra-agricolo, l’industria, le abitazioni moderne, le strade, le comunicazioni, l’istruzione universitaria, il ceto medio (46). Tuttavia, questo rapidissimo cambiamento nel livello dei consumi e dei servizi, e il relativo cambiamento nella produzione, non furono dovuti ad un aumento della produttività e all’affermarsi del profitto, come reddito fondamentale, al posto della rendita agraria; la causa, com’è noto, furono i finanziamenti pubblici, sia nella produzione che nella spesa sociale. Questo permise alle vecchie élite borghesi e ai vecchi valori pre-moderni di sopravvivere, in forma camuffata, all’interno della (presunta) modernità della società meridionale (47). Si accentuò il sottosviluppo, cioè lo sviluppo parziale e distorto, funzionale all’economia più forte; si riprodussero schemi di comportamento anti-moderni; si riprodussero le rendite e i privilegi, non più in forma di rendita agraria, ma soprattutto come gestione privatistica del denaro pubblico, e come speculazione fondiaria per l’urbanizzazione. In questo senso i tre fattori originari dell’arretratezza, nonostante tutti i cambiamenti, continuarono a impedire lo sviluppo del Sud (48).
    Volendo, inoltre, approfondire le ragioni del mancato sviluppo di una coscienza collettiva nel Mezzogiorno occorre comunque utilizzare una prospettiva di lunga durata. Nel 1919 Antonio Gramsci scrisse su l’Ordine Nuovo un articolo dal titolo “Operai e contadini”. Egli affermò, tra l’altro, che “Le istituzioni economiche e politiche non sono concepite come categorie storiche, che hanno avuto un principio, hanno subito un processo di sviluppo, e possono dissolversi, dopo aver creato le condizioni per superiori forme di convivenza sociale; sono concepite invece come categorie naturali, perpetue, irriducibili. In realtà la grande proprietà terriera è rimasta fuori dalla libera concorrenza: e lo Stato moderno ne ha rispettato l’essenza feudale, escogitando formule giuridiche…che continuano di fatto le investiture e i privilegi feudali. La mentalità del contadino è rimasta perciò quella del servo della gleba, che si rivolta violentemente contro i “signori” in determinate occasioni, ma è incapace di pensare sé stesso come membro di una collettività…” (49).
    Gramsci scrisse per il XX secolo ma le sue parole esprimono bene le condizioni del Mezzogiorno in termini di ruolo delle istituzioni e mancata coscienza collettiva, già presenti nel periodo della dominazione spagnola (secoli XVI-XVII) (50). Il rapporto di vassallaggio feudale è il primo degli elementi da considerare. Sviluppatosi pienamente già durante la dominazione normanna esso non fu solo riconosciuto quale rapporto preminente e forma necessaria di legame con il sovrano ma anche rinforzato di fatto e di diritto; Galasso lo definì l’aspetto “più conosciuto e più esaltato della funzione svolta dalla Spagna nel Napoletano” (51). Alla riconosciuta superiorità del nobile era direttamente legato il tradizionale senso dell’onore; in origine esso derivava principalmente dai successi militari ma a partire dalla seconda metà del XVI secolo fu associato soprattutto alle funzioni di carattere amministrativo. La carriera e i privilegi che da essa derivavano diventarono nuova fonte di onore e di prestigio che non investivano solo il singolo ma l’intera famiglia a cui apparteneva; allo stesso tempo l’onore della famiglia era direttamente connesso con quello del sovrano e della nazione. Il senso dell’onore e della superiorità si traducevano materialmente in un modello di vita brillante e nell’ostentazione del lusso; i nobili “erano capaci di mantenere uno stile di vita che avrebbe causato l’ammirazione e le critiche del resto degli italiani per molto tempo” (52).
    L’intreccio sempre più fitto di interessi tra le grandi casate nobiliari divenne la principale fonte del fenomeno del clientelismo; il meccanismo della clientela interessò, infatti, soprattutto la vita politica, fornendo un importante sostegno alla presenza dei baroni nei seggi e permettendo loro di aumentare il controllo sul popolo e consentì, inoltre, cospicui vantaggi a Vicerè e nobili legati da medesimi interessi. Ma il clientelismo finì per investire anche gli altri ambiti sociali (quello militare e culturale) e i diversi ambiti territoriali (non solo le corti, ma anche i domini rurali); così come in Spagna anche nel Mezzogiorno “l’influenza, il favoritismo, la raccomandazione costituivano…gli strumenti essenziali per fare una qualsiasi carriera” (53). Nell’utilitarismo e nella venalità dei funzionari pubblici si manifestò una visione necessariamente distorta dell’idea stessa di Stato, che era concepito come fonte di guadagni e privilegi personali (54).
    Anche se nel secolo XVII si formò una borghesia indigena tuttavia essa non permise lo sviluppo della società moderna; i mercanti si allearono con i nobili e con il governo spagnolo al fine di poter ottenere vantaggi economici e politici. Non si formò un ceto medio in grado di rappresentare e sostenere ruoli diversi da quelli del funzionario pubblico e del feudatario e ciò impedì la nascita di una progettualità e di una coscienza collettive; soprattutto per queste ragioni storiche nel Mezzogiorno non c’è una “comunità civica” (55). Nel Sud c’è un “deficit di etica pubblca” causato dal fatto che i privati, non sentendosi adeguatamente tutelati nei propri interessi dalle istituzioni, hanno per molti secoli percepito queste ultime come distaccate ed estranee (56). Non essendo avvenuta la nascita del cittadino nel Sud il popolo è rimasto storicamente composto quasi esclusivamente da sudditi; soprattutto i caratteri pre-moderni dello Stato spagnolo non permisero il formarsi di un senso civico meridionale. L’amministrazione pubblica è stata stabilmente controllata dai nobili feudatari che usavano i propri incarichi per il raggiungimento dell’interesse personale; così le insufficienze dello Stato nel campo delle politiche sociali causarono rivolte popolari contro il governo e, in generale, un sentimento di ostilità nei suoi confronti. Proprio a causa della mancata formazione di una coscienza civile collettiva, elemento connesso direttamente all’estraneità del ceto medio rispetto al territorio, anche le istanze popolari sono state slegate da un interesse per il bene pubblico ed hanno avuto come scopo il semplice raggiungimento di vantaggi privati (57).
    L’analisi di Banfield, condotta su una comunità arretrata del Sud nella metà del XX secolo, si potrebbe quasi del tutto applicare al Mezzogiorno spagnolo a causa dell’immobilità di fondo che caratterizza la società meridionale; il concetto di “familismo amorale” descritto dall’autore spiega bene il modo di agire volto alla massimizzazione dei vantaggi materiali che l’individuo cerca di ottenere per sé e per la sua famiglia. Egli non si interessa della dimensione pubblica a meno che questo non comporti un miglioramento della propria posizione economica; per lui lo Stato è un’istituzione nemica. Il medesimo atteggiamento caratterizza spesso la condotta del funzionario pubblico che, lungi dall’identificarsi con gli scopi delle istituzioni in cui è impiegato, sfrutta la propria carica per ottenere personali benefici; da qui derivano la corruzione e il clientelismo. Banfield colse anche l’atteggiamento fatalistico che caratterizza molti meridionali; l’individuo non assume il controllo del proprio destino ma accetta quest’ultimo passivamente e il successo dipende dalla fortuna o dall’intervento divino, dunque da forze estranee e imprevedibili. Questo condiziona in primo luogo l’economia, in quanto frena lo spirito d’iniziativa e lo sfruttamento delle proprie abilità, e in secondo luogo condiziona l’agire politico; se tutto dipende dal destino e da Dio è molto difficile che si possano realizzare progetti collettivi. L’invidia, il sospetto e l’egoismo soffocano altruismo e fiducia reciproca, impedendo così la nascita di forme avanzate di organizzazione sociale (58).

    La lunga durata del brigantaggio, della mafia, della camorra e della ‘ndrangheta

    In Italia il fenomeno brigantesco è durato quantomeno dal Medioevo sino alla fine del secolo XIX e ha compreso, con maggiore o minore intensità, un poco tutte le aree geografiche, anche se ha raggiunto il suo massimo grado nel Meridione (59). L’esistenza di briganti sin dal secolo XVI e prima ancora e la loro individuazione giuridica e anche linguistica come criminali sono ambedue saldamente provate sulla base di molteplici fonti. Il termine brigante convive nei secoli con molti altri sinonimi. La quantità di fonti che documentano la presenza massiccia e continua di tali sinonimi è incalcolabile; i termini briganti, banditi, fuorbanditi, malfattori, mali christiani, scorridori di campagna, grassatori, bravi, sicari ecc. si ritrovano in abbondanza nelle ordinanze dei secoli XVI-XVII con le diverse Prammatiche, Bandi, Costituzioni, Circolari, Capitoli, contro le bande che imperversavano nel Mezzogiorno (60). Un grosso argomento, tra l’altro, contro l’ipotesi del brigantaggio postunitario quale guerriglia politica di matrice borbonica è l’esistenza plurisecolare del fenomeno brigantesco (61).
    L’antica presenza del banditismo nel regno meridionale e la sua particolare recrudescenza a partire dall’espansione francese di età napoleonica sono ben presenti alla storiografia che ha fatto il punto sull’unificazione italiana intorno al 2011. Il grande brigantaggio va inserito, ha scritto Salvatore Lupo, in una storia di rivoluzioni, controrivoluzioni e guerre civili, cominciata nel 1799 e indissolubilmente intrecciata con il processo di creazione di istituzioni liberali e di uno Stato nazione (62). In un importante convegno di studi del 1984 Giuseppe Galasso a sua volta ha messo a fuoco con chiarezza aspetti di continuità e discontinuità, contestualizzando il fenomeno in un'ottica di lunga durata e in particolare soffermandosi su banditismo/brigantaggio nei secoli XVI-XVIII (63). Giovanni Cherubini ne ha studiato le forme durante il periodo medievale nel Sud dell’Italia (64) mentre Francesco Cascella estese il fenomeno del brigantaggio al periodo preromano (65).
    Anche Marc Monnier, scrivendo subito dopo l’Unità d’Italia una storia del brigantaggio nel Mezzogiorno, insistette sulla sua lunga durata. Secondo lui: “In queste contrade vi furono sempre briganti. Aprite le istorie, e ne troverete sotto tutti i regni, sotto tutte le dinastie, dai Saraceni e dai Normanni fino ai nostri giorni; le strade fra Roma e Napoli non furono mai abbastanza sicure. Immaginate dunque cosa dovesse essere la parte interna e meno frequentata di queste provincie: era un ricettacolo di assassini. In talune di esse non fu mai prudente viaggiare anche in uniforme” (66). Per Monnier “Tutto favoriva il brigandaggio: e la stessa configurazione del paese, coperto di montagne, e le idee del governo, che di quelle montagne non davasi cura, nè vi apriva gallerie, nè vi tagliava strade: vi hanno distretti intieri per i quali non è ancora passata una carrozza: vi hanno sentieri, che i muli non si arrischiano di percorrere; aggiungasi a questo il sistema di agricoltura della Puglia, la vita nomade de' pastori che passano la estate sui monti, e vivono in quelle cime senza famiglia, in mezzo al loro gregge, in un isolamento selvaggio. I viandanti sprovvisti di ogni difesa, a torto si avventurano in que' deserti” (67). Egli scrisse significativamente che: “In tempi di crisi politiche il brigandaggio aumentava a dismisura, accogliendo la feccia delle popolazioni, delle prigioni dischiuse, i vagabondi e i malfattori in gran quantità. E si vide quasi sempre il partito vinto servirsi di questi banditi a difesa della propria causa. È mestieri forse ricordare la sanguinosa spedizione del Cardinal Ruffo nel 1799? Frà Diavolo, Mammone, Proni, Sciarpa, De Cesari furono in que' tempi celebri, «nè di essi saprei dire altro, scrive il Botta, se non che io compiango la causa de' Borboni per averli a difensori»” (68). Se si considera la lunghissima durata del brigantaggio hanno sbagliato quindi Enzo Ciconte, Francesco Forgione e Isaia Sales quando, scrivendo dell’origine di mafia, camorra e ‘ndrangheta, hanno sostenuto che a dimostrare la diversità delle mafie dalle altre forme criminali presentatesi sulla scena della storia è la loro capacità di lunga durata e la loro riproducibilità (69).
    Hanno fatto bene, invece, i suddetti autori a scrivere che se mafia, camorra e ‘ndrangheta si affermano oltre ogni previsione a partire dall’Unità d’Italia in poi, forse è il caso di guardare all’insieme delle comuni circostanze storiche alla base della loro origine e del loro successo; l’impressione è che si tratti di un comune modello vincente, che va definito appunto «modello mafioso». Si può e si deve parlare, quindi, di una storia unitaria delle tre grandi criminalità di tipo mafioso in Italia. Secondo loro ogni organizzazione criminale ha una sua singolarità, un nome proprio, una identità ben precisa, un autonomo svolgimento; ogni organizzazione cioè nasce e prospera in un determinato ambiente storico, economico, sociale, culturale e politico ma tuttavia è facile notare come tra i diversi agglomerati criminali molti sono i punti di contatto, i nessi, le interconnessioni, le similitudini (70). Quando si cominciò a parlare di mafia o quando si diede tale nome a ciò che prima veniva definito diversamente la mafia era già in un periodo di forte espansione e veniva definita come un grande pericolo; è impossibile perciò che un fenomeno nato appena dopo il 1860 avesse acquisito un ruolo così evidente e forte in appena 15 anni. La sua forza nel periodo dei primi rapporti e dei primi studi lascia ampiamente immaginare una origine precedente al periodo unitario anche se chiamata con un diverso nome. In Calabria c’erano gli «Spanzati» che già a fine Settecento svolgevano un’attiva funzione di mediazione sui prezzi delle merci pregiate mentre a Napoli si identificavano i camorristi con i cosiddetti Lazzari, protagonisti della scena napoletana con la rivoluzione di Masaniello e poi con il fallimento della rivoluzione del 1799 (71).
    Ciconte, Forgione e Sales hanno sostenuto, poi, che è sempre bene ribadire che gli indubbi aspetti culturali del consenso mafioso sono frutto di una lunga storia e non di una naturale predisposizione delle popolazioni coinvolte (72). Ma che significa questa affermazione? Ai primordi della storia non c’era una naturale predisposizione dei meridionali a capire e riconoscere la mentalità mafiosa ma nel corso dei secoli questa predisposizione si è affermata, anche dal punto di vista genetico; le varie generazioni che si sono succedute hanno tramandato anche questa mentalità.
    Secondo i suddetti autori i mafiosi sono durati tanto a lungo perché non c’è stata da parte delle classi dirigenti né del popolo una forte e duratura riprovazione verso le loro azioni e verso i loro comportamenti; per un lungo periodo storico i mafiosi non coincidevano con i delinquenti né per i rappresentanti dello Stato centrale né di quello locale, né per le classi dirigenti né per il popolo comune, né tantomeno per la Chiesa cattolica e attraverso questa complessa costruzione di mentalità la mafia si è legittimata allo stesso modo della violenza baronale (73). Quando i fenomeni criminali durano tanto a lungo (e quando tutti i tentativi di reprimerli o di ridimensionarli si sono dimostrati inefficaci) ciò vuol dire che questi fenomeni non appartengono solo alla storia della criminalità, ma sono parte integrante della storia d’Italia, fanno parte cioè a pieno titolo della storia sociale, civile, politica, religiosa ed economica del nostro Sud e dell’intero Paese; non si tratta, dunque, di storia separata, ed è una storia fatta non solo di biografie di assassini e delinquenti. Per i suddetti autori la storia della criminalità è una specie di autobiografia della società italiana e meridionale nel loro insieme, ne rappresenta uno degli elementi della sua evoluzione e trasformazione storica; non si può fare storia del nostro Paese e del Sud prescindendo dal peso e dal ruolo che vi hanno rivestito i criminali mafiosi e le loro relazioni con le classi dirigenti che ufficialmente quella storia la scrivevano. Ma subito dopo hanno opportunamente affermato che la verità è che la storia delle mafie è nei fatti storia dei rapporti e delle relazioni che l’insieme della società ha stabilito, nel tempo, con i fenomeni criminali e viceversa perché sono queste relazioni che spiegano tutto; senza queste relazioni, senza questi rapporti, le mafie non sarebbero tali, non sarebbero durate tanto a lungo, non peserebbero come un macigno sul passato, sul presente e sul futuro dell’intera nazione. Per questo si parla tanto di zona grigia o di borghesia mafiosa, termini che danno l’idea di lunghi processi di relazioni e di rapporti, di convenienze economiche e di cointeressenze varie, di condivisioni di valori e di obiettivi di conservazione politica e di immobilismo sociale (74).

    L’origine storica dei problemi del Mezzogiorno di oggi

    Gli storici Ernesto Galli della Loggia e Aldo Schiavone hanno scritto recentemente un libro sul Mezzogiorno il cui contenuto è quasi interamente condivisibile (75) La loro analisi dei mali del Sud dell’Italia comincia con l’affermazione che esiste un’unica entità definibile in quanto tale come «il Mezzogiorno» senza ulteriori specificazioni. Secondo loro si tratta di un punto di vista fondato su alcuni indiscutibili elementi: l’appartenenza per secoli di tutto il territorio, dal Tronto a Capo Passero, a una sola compagine statale; la generale debolezza, entro i suoi confini, della dimensione comunale e cittadina in genere, dominante invece in quasi tutto il resto d’Italia; dappertutto la forza di influssi culturali e religiosi originati dalla molteplicità dei contatti mediterranei; la lunga permanenza del feudo e del latifondo; infine, quasi dovunque, una certa consuetudine dei rapporti sociali con la violenza, e la presenza di storiche organizzazioni criminali (76). E’ questo il motivo per cui, presumibilmente, tutti coloro che tra l’Ottocento e il Novecento, sulla scia di Franchetti e Sonnino, s’interessarono ai problemi del Mezzogiorno – raccolti sotto l’etichetta di «questione meridionale» – dando vita per l’appunto a quel che si chiama «meridionalismo», non mancarono mai, pur soffermandosi sugli aspetti di natura economica, di sottolineare quelli più propriamente culturali che attengono alla storia delle mentalità (77). L’opinione dei suddetti autori è che quello che appare sorprendente – e per certi versi persino drammatico – è che, a distanza di un secolo, Villari e Galasso giravano entrambi intorno allo stesso problema, sembravano scoprire lo stesso vuoto, che si rivelava dietro la volatilità d’intenti denunciata dal primo, e la «disgregazione» sottolineata dal secondo; la questione adombrata non era altro che la frantumazione e la mancanza di adeguati legami sociali del popolo meridionale e delle sue classi dirigenti, non l’inesistenza di queste ultime bensì la loro mancanza di coesione e di connessioni intellettuali e sociali, la loro incapacità di aggregarsi intorno a un disegno e a un progetto di salvezza – e dunque la crisi permanente del loro rapporto con la politica e con la possibilità di darsi una rappresentanza capace di farsi carico del destino della propria gente e di condurla verso il riscatto (78).
    Secondo i due autori sarebbe sciocco immaginare che dietro ogni fallimento o inadeguatezza ci sia sempre, direttamente identificabile, la delinquenza organizzata e che c’è di sicuro molto altro, più impalpabile, meno cruento, ma anche situato più in profondità; di certo, però, dietro la rovina di tutto ciò che è pubblico c’è nel Mezzogiorno qualcosa che è compatibile se non omogeneo rispetto al nocciolo duro dell’autentica mentalità criminale; qualcosa che è insieme causa (anche se non la sola) ed effetto della presenza delle vere e proprie organizzazioni camorristiche, ’ndranghetiste o mafiose in senso stretto, qualcosa che non si può definire meglio se non come una cultura diffusa dell’extralegalità. Si tratta di un insieme di modi di pensare e di comportarsi che si esprime nella forma di una radicata indifferenza verso quasi ogni norma dettata dal potere legale, di completa estraneità rispetto a ogni dimensione collettiva, a ogni comportamento conforme alle regole emanate dallo Stato; una specie di apatia – un atteggiamento tra indolenza e fastidio, pronto ad accettare anche il peggio, e a adattarvisi, pur di ricavarne qualche vantaggio personale, anche minimo – penetrata in tutti gli strati sociali, che in un certo senso fa da terreno di coltura rispetto all’illegalità vera e propria, quella dell’autentica delinquenza, perché le spiana la strada, ne è il volto non clandestino e non sanguinario, ma pur sempre complementare (79).
    La loro opinione è che sollevare il tema della carenza nel Mezzogiorno di un senso civico adeguato alle esigenze di un grande Paese che ha fatto tutti i conti con la modernità, e magari aggiungere che una simile lacuna spiana indirettamente la strada alla mafia e alla camorra, suona a molti politicamente scorretto, come un giudizio dal sapore tendenzialmente razzista. Quest’atteggiamento è tipico soprattutto di quel particolare mainstream mediatico-culturale convinto, più o meno in buona fede, che qualsiasi osservazione critica nei confronti dei comportamenti di un gruppo o di una qualunque collettività possa già rappresentare il primo passo sulla via verso Auschwitz e che dunque ogni giudizio del genere vada comunque rigettato a priori; con il risultato di precludersi così un’autentica comprensione critica della realtà e di lasciare molte domande senza risposta, per non dire della frattura, che in tal modo si viene a creare, fra senso comune (che mantiene una presa diretta sulle cose) e discorso pubblico, ingessato nella gabbia dei suoi interdetti (80).
    L’opinione di Galli della Loggia e Schiavone è che per un lungo tratto dei nostri ultimi decenni nell’approccio alla questione meridionale sia stata assai evidente la diversità tra senso comune da una parte e opinione ufficiale del Paese dall’altra – cioè quella della politica e dei ceti più colti – che considerava il divario Nord-Sud essenzialmente come il prodotto solo di una grave e perdurante arretratezza economica, sorvolando sugli aspetti culturali e di mentalità e sulla loro autonomia; per concluderne che, dunque, l’eliminazione, grazie ad appositi interventi pubblici, del ritardo produttivo avrebbe implicato da solo, in modo quasi automatico, anche un profondo cambiamento sociale e, con esso, la fine di ogni divario. Ma mentre l’Italia «ufficiale» la pensava in questo modo, il Paese «reale» – il suo senso comune, la sua coscienza diffusa – continuava invece a credere che le cose stessero diversamente e cioè non solo che le diversità culturali del Mezzogiorno rispetto al resto d’Italia non fossero un dato dipendente – almeno nel breve e nel medio periodo – unicamente da ragioni economiche in senso stretto ma che proprio la loro esistenza in quanto tale costituisse un formidabile ostacolo a ogni radicale miglioramento delle condizioni economiche e civili di quelle regioni, che la realtà fosse cioè più complessa di come la si voleva far apparire, e che semplificarla in nome di una versione economicista del «politicamente corretto» non aiutasse (81).
    I due autori hanno concluso scrivendo che il nodo cruciale del loro ragionamento sta nella distinzione essenziale fra critica di una condizione storicamente determinata – e perciò sempre storicamente modificabile se si interviene con la necessaria efficacia – e giudizio negativo su una forma antropologica data una volta per tutte; essi sostengono che non credono che esista una forma antropologica – non mutabile in tempi storici – della meridionalità italiana: una specie di «natura meridionale» data a priori e come per sempre ma che esiste invece un insieme di tratti culturali e mentali di «meridionalità» come esito di processi storici ben definiti, alcuni più brevi e veloci, altri di più lunga durata, che hanno riguardato il Mezzogiorno dalla tarda antichità sino agli inizi di questo secolo, e che non sono comuni al resto d’Italia. Essi si chiedono che se l’immagine del Sud che hanno tratteggiato lo presenta in un vicolo cieco, in una condizione con aspetti di rischio estremo, e se hanno tanto insistito sull’esistenza di connotati culturali e mentali che definiscono qualcosa che si avvicina a un «carattere meridionale» non sarà tutto ciò l’anticamera per la riproposizione di una visione discriminatoria delle popolazioni del Mezzogiorno, con un fondo se non proprio razzista, quantomeno nutrito di un forte pregiudizio antisudista? Essi rispondono con forza che non è così, e che semmai è vero proprio l’opposto: che cioè è una valutazione fondamentalmente positiva del popolo del Sud nella sua specificità storica a orientare il loro giudizio e la loro denuncia (82). Ma non si può dare un giudizio positivo della popolazione del Sud dopo aver espresso tanti giudizi negativi sul suo comportamento; in questo modo si rischia di riproporre la vecchia e sbagliata distinzione tra popolo e classe dirigente, con il popolo sostanzialmente innocente e la classe dirigente responsabile di tutti i mali. Ciò non vuol dire che la mentalità dei meridionali non potrà mai cambiare perché essa sta già cambiando ma che questo cambiamento è un processo di lunga durata e che esso può essere agevolato solo se verranno attivate le giuste politiche da parte dello Stato centrale e delle sue articolazioni periferiche.

    NOTE
    1) DAVID ARMITAGE, JOE GULDI: Manifesto per la storia. Il ruolo del passato nel mondo d’oggi (ed. or. 2014); Donzelli, Roma, 2016.
    2) RENATO CAMURRI: La storia, bene comune, introduzione a DAVID ARMITAGE, JOE GULDI: Manifesto per la storia. Il ruolo del passato nel mondo d’oggi, cit., p. VII.
    3) DAVID ARMITAGE, JOE GULDI: Manifesto per la storia. Il ruolo del passato nel mondo d’oggi, cit., p. 77.
    4) DAVID ARMITAGE, JOE GULDI: Manifesto per la storia. Il ruolo del passato nel mondo d’oggi, cit., p. 87.
    5) Sula svolta linguistica si vedano i seguenti lavori pubblicati in italiano: ROBERTO DAMI: I tropi della storia. La narrazione nella teoria della storiografia di H. White; Franco Angeli, Milano, 1994; RICHARD RORTY: La svolta linguistica (ed. or. 1967); Garzanti, Milano, 1994; ENZO TRAVERSO: Il passato: istruzioni per l’uso. Storia, memoria, politica; Ombre Corte, Verona, 2006; HAYDEN WHITE: Retorica e storia (ed. or. 1975); Guida, Napoli, 1978; HAYDEN WHITE: Storia e narrazione (ed. or. 1987); Longo, Ravenna, 1999; HAYDEN WHITE: Forme di storia (ed. or. 1999); Carocci, Roma, 2007.
    6) Sulla storia culturale si vedano i seguenti lavori pubblicati in italiano: PETER BURKE: La storia culturale (ed. or. 2004); Il Mulino, Bologna, 2006; NORBERT ELIAS: Il processo di civilizzazione (ed. or. 1939); Il Mulino, Bologna, 1982; CLIFFORD GEERTZ: Interpretazione di culture (ed. or. 1973); Il Mulino, Bologna 1987; LYNN HUNT: La storia culturale nell'età globale (ed. or. in italiano); Edizioni ETS, Pisa 2010; TYLOR EDWARD BURNETT: Alle origini della cultura (ed. or. 1871); Ist. Editoriali e Poligrafici, Roma, 2000.
    7) Armitage e Guldi hanno citato, a questo proposito, i seguenti testi: ANTOINETTE BURTON (a cura di): After the Imperial Turn: Thinking With and Through the Nation; Duke University Press, London-Durham (NC), 2003; ULF HEDETOFT: The Global Turn: National Encounters with the World; Aalborg University Press, Aalborg, 2003; WINFRIED FLUCK, DONALD E. PEASE, JOHN CARLOS ROWE (a cura di): Re-Framing the Transational Turn in American Studies; Dartmouth, Hanover, 2011; DURBA GHOSH: Another Set of Imperial Turns?, in “American Historical Review”, 117, 2012, pp. 772-93.
    8) RENATO CAMURRI: La storia, bene comune, cit., p. XII.
    9) RENATO CAMURRI: La storia, bene comune, cit., pp. XII-XIII.
    10) Pubblicato in Italia da Bompiani nel 2014.
    11) DAVID ARMITAGE, JOE GULDI: Manifesto per la storia. Il ruolo del passato nel mondo d’oggi, cit., p. 160.
    12) DAVID ARMITAGE, JOE GULDI: Manifesto per la storia. Il ruolo del passato nel mondo d’oggi, cit., p. 162.
    13) DAVID ARMITAGE, JOE GULDI: Manifesto per la storia. Il ruolo del passato nel mondo d’oggi, cit., p. 172.
    14) RENATO CAMURRI: La storia, bene comune, cit., p. XIV-XV.
    15) FERNAND BRAUDEL: Storia e scienze sociali. La “lunga durata” (ed. or. 1958), in ID.: Scritti sulla storia; Arnoldo Mondadori, Milano, 1973, p. 60.
    16) FERNAND BRAUDEL: Prefazione (1946), in ID.: Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II; Einaudi, Torino, 1953, p. XXXIII.
    17) DAVID ARMITAGE, JOE GULDI: Manifesto per la storia. Il ruolo del passato nel mondo d’oggi, cit., pp. 32-33.
    18) DAVID ARMITAGE, JOE GULDI: Manifesto per la storia. Il ruolo del passato nel mondo d’oggi, cit., pp. 33-34.
    19) Devo la ricostruzione delle origini preistoriche della Civiltà appenninica al grande linguista Mario Alinei (Per la descrizione della sua carriera accademica e delle sue opere si veda HARALD HENDRIX: In memoriam Mario Alinei (1926-2018), in “Incontri”, Anno 33, 2018 / Fascicolo 2 / p. 146-147). Egli cercò di ricostruire le origini pastorali e italiche della camorra, della mafia e della ‘ndrangheta scrivendo, nel 2007, un bellissimo articolo (Origini pastorali e italiche della camorra, della mafia e della ‘ndrangheta: un esperimento di Archeologia Etimologica, in “Quaderni di semantica”, anno VIII, n. 2, dicembre 2007). Questo articolo, però, ha il difetto di indagare sulle origini preistoriche di queste organizzazioni criminali e non sulle loro radici preistoriche perché è oramai acclarato che esse sono nate non prima del 19° secolo. Questo errore di valutazione non inficia, però, la validità dell’articolo perché egli, indagando su mafia, camorra e mafia, ha comunque evidenziato benissimo le radici preistoriche della mentalità collettiva e dei comportamenti violenti di una fascia consistente della popolazione meridionale. Considero Mario Alinei alla stessa stregua di uno scienziato che volendo fare una determinata scoperta ne ha fatta un’altra altrettanto importante. Al suddetto articolo di Mario Alinei mi sono ispirato anche nella stesura di un mio precedente lavoro (Le origini preistoriche della civilizzazione degli italiani (2021), https://francopelella.blogfree.net/?t=6329615 e www.academia.edu/70874151/LE_RADIC..._DEGLI_ITALIANI).
    20) MARIO ALINEI - Origini pastorali e italiche della camorra, della mafia e della ‘ndrangheta: un esperimento di Archeologia Etimologica, cit. p. 249.
    21) RENATO PERONI: L’Italia alle soglie della storia, Laterza, Roma-Bari, 1996, p. 430.
    22) MARIO ALINEI: Origini delle lingue d’Europa II: Continuità dal Mesolitico all’età del Ferro nelle principali aree etnolinguistiche; Il Mulino, Bologna, 2000.
    23) ALESSANDRO GUIDI: Le età dei metalli nell’Italia centrale e in Sardegna, in ALESSANDRO GUIDI, MARCELLO PIPERNO: (a cura di): Italia preistorica; Laterza, Bari, 1992, p. 421.
    24) ALESSANDRO GUIDI: Le età dei metalli nell’Italia centrale e in Sardegna, cit., p. 435.
    25) ENRICO PELLEGRINI: Le età dei metalli nell’Italia meridionale e in Sicilia, in ALESSANDRO GUIDI, MARCELLO PIPERNO (a cura di): Italia preistorica, cit., pp. 505-506.
    26) SALVATORE PUGLISI: La Civiltà Appenninica, Firenze, Sansoni, Firenze, 1959; GRAEME BARKER: Ambiente e società nella preistoria dell'Italia centrale (ed. or. 1981); Carocci, Roma, 1984 ; ALESSANDRO GUIDI: Le età dei metalli nell’Italia centrale e in Sardegna, cit., pp. 422 e 436.
    27) GRAEME BARKER: Ambiente e società nella preistoria dell'Italia centrale, cit., p. 99
    28) MARIO ALINEI - Origini pastorali e italiche della camorra, della mafia e della ‘drangheta, cit., pp. 251-252.
    29) ANNA MARIA BIETTI SESTIERI: Rapporti e scambi fra le genti indigene del bronzo e la prima età del ferro nella zona della colonizzazione, in GIOVANNI PUGLIESE CARRATELLI (a cura di): Magna Grecia. Il Mediterraneo, le metropoleis e la fondazione delle colonie; Mondadori Electa, 1985, pp. 85-126; ENRICO PELLEGRINI: Le età dei metalli nell’Italia meridionale e in Sicilia, cit., p. 488.
    30) UGO VIGNUZZI, FRANCESCO AVOLIO: Per un profilo di storia linguistica ‘interna’ dei dialetti del Mezzogiorno d’Italia, in GIUSEPPE GALASSO (a cura di): Storia del Mezzogiorno, vol. IX; Edizioni del Sole, Napoli, 1993, p. 641.
    31) MARIO ALINEI - Origini pastorali e italiche della camorra, della mafia e della ‘ndrangheta, cit., p. 252.
    32) ALESSANDRO GUIDI: Le età dei metalli nell’Italia centrale e in Sardegna, cit., p. 439.
    33) ALESSANDRO GUIDI: Le età dei metalli nell’Italia centrale e in Sardegna, cit., p. 427.
    34) ALESSANDRO GUIDI: Le età dei metalli nell’Italia centrale e in Sardegna, cit., p. 454.
    35) COSIMO PERROTTA, CLAUDIA SUNNA (a cura di): Prefazione a ID:: L’arretratezza del Mezzogiorno. Le idee, l’economia, la storia; Bruno Mondadori, Milano, 2012, p. IX.
    36) COSIMO PERROTTA, CLAUDIA SUNNA (a cura di): Prefazione a ID:: L’arretratezza del Mezzogiorno, cit., p. IX.
    37) GIUSEPPE GALASSO: Storia del Regno di Napoli, vol. VI: Società e cultura del Mezzogiorno moderno; Utet, Torino, 2011, pp. 595-6.
    38) GIUSEPPE GALASSO: Storia del Regno di Napoli, vol. VI: Società e cultura del Mezzogiorno moderno, cit., p. 598.
    39) COSIMO PERROTTA, CLAUDIA SUNNA (a cura di): Prefazione a ID:: L’arretratezza del Mezzogiorno, cit., p. X.
    40) COSIMO PERROTTA, CLAUDIA SUNNA (a cura di): Prefazione a ID:: L’arretratezza del Mezzogiorno, cit., p. XI.
    41) COSIMO PERROTTA, CLAUDIA SUNNA (a cura di): Prefazione a ID:: L’arretratezza del Mezzogiorno, cit., p. XI.
    42) AURELIO MUSI: Mezzogiorno moderno. Dai Viceregni spagnoli alla fine delle due Sicilie; Salerno Editrice, Roma, 2022, pp. 24-25.
    43) AURELIO MUSI: Mezzogiorno moderno, cit. pp. 25-26.
    44) COSIMO PERROTTA, CLAUDIA SUNNA (a cura di): Prefazione a ID:: L’arretratezza del Mezzogiorno, cit., p. XI.
    45) COSIMO PERROTTA, CLAUDIA SUNNA (a cura di): Prefazione a ID:: L’arretratezza del Mezzogiorno, cit., p. XI.
    46) COSIMO PERROTTA, CLAUDIA SUNNA (a cura di): Prefazione a ID:: L’arretratezza del Mezzogiorno, cit., pp. XI-XII.
    47) COSIMO PERROTTA, CLAUDIA SUNNA (a cura di): Prefazione a ID:: L’arretratezza del Mezzogiorno, cit., p. XII.
    48) COSIMO PERROTTA, CLAUDIA SUNNA (a cura di): Prefazione a ID:: L’arretratezza del Mezzogiorno, cit., p. XII.
    49) ANTONIO GRAMSCI: Operai e contadini, in “L’Ordine Nuovo”, 2/8/1919 ma anche in ID: La questione meridionale; Editori Riuniti, Roma, 1966), p. 64.
    50) ANNA AZZURRA GIGANTE: La mancata formazione del senso civico. Prima fase, in COSIMO PERROTTA E CLAUDIA SUNNA (a cura di): L’arretratezza del Mezzogiorno. Le idee, l’economia, la storia, cit., p. 52]
    51) GIUSEPPE GALASSO: Alla periferia dell’Impero. Il Regno di Napoli nel periodo spagnolo; Einaudi, Torino, 1994, p. 26].
    52) BRUNO ANATRA: Nel sistema imperiale. L’Italia spagnola; ESI, Napoli, 1994, p. 152.
    53) JOHN H. ELLIOT: La Spagna imperiale (ed. or. 1963); Il Mulino, Bologna, 1982, p. 364.
    54) ANNA AZZURRA GIGANTE: La mancata formazione del senso civico. Prima fase, cit., pp. 58-59.
    55) Vedi ROBERT PUTNAM (con ROBERTO LEONARDI e RAFFAELLA NANETTI): La tradizione civica delle regioni italiane (ed. or. 1993); Arnoldo Mondadori, Milano, 1993.
    56) Vedi MARIO ALCARO: Sull’identità meridionale; Bollati Boringhieri, Torino, 1999.
    57) ANNA AZZURRA GIGANTE: La mancata formazione del senso civico. Prima fase, cit., pp. 64-65.
    58) Vedi EDWARD C. BANFIELD: Le basi morali di una società arretrata (ed. or. 1958); Il Mulino, Bologna, 1976.
    59) MARCO VIGNA: Brigantaggio italiano. Considerazioni e studi nell’Italia unita; Interlinea, Novara, 2020, p. 17
    60) MARCO VIGNA: Brigantaggio italiano. Considerazioni e studi nell’Italia unita, cit., p. 337.
    61) MARCO VIGNA: Brigantaggio italiano. Considerazioni e studi nell’Italia unita, cit., p. 335.
    62) SALVATORE LUPO: Il grande brigantaggio. Interpretazione e memoria di una guerra civile, in WALTER BARBERIS (a cura di): Storia d'Italia, Annali XVIII, Guerra e Pace; Einaudi, Torino, 2002, pag. 494.
    63) GIUSEPPE GALASSO: Unificazione italiana e tradizione meridionale nel brigantaggio del Sud, in "Archivio Storico per le provincie napoletane", n. CI, a. XXII terza serie, 1983, pagg. 2 e ss.
    64) GIOVANNI CHERUBINI: La tipologia del bandito nel tardo medioevo, in GHERARDO ORTALLI (a cura di): Bande armate, banditi, banditismo e repressione di giustizia negli stati europei di antico regime, Jouvence, Firenze, 1986, pp. 120 e seguenti.
    65) FRANCESCO CASCELLA: Il brigantaggio, ricerche sociologiche e antropologiche; Noviello, Aversa, 1907, pagg. 20 e ss.
    66) MARC MONNIER: Notizie storiche sul brigantaggio nelle provincie napoletane dai tempi di Frà Diavolo fino ai giorni nostri; G. Barbera editore, Firenze, 1862, pp. 8-9.
    67) MARC MONNIER: Notizie storiche sul brigantaggio nelle provincie napoletane dai tempi di Frà Diavolo fino ai giorni nostri, p. 9
    68) MARC MONNIER: Notizie storiche sul brigantaggio nelle provincie napoletane dai tempi di Frà Diavolo fino ai giorni nostri, p. 12.
    69) ENZO CICONTE, FRANCESCO FORGIONE, ISAIA SALES: Le ragioni di un successo, in ID.: (a cura di) - Atlante delle mafie. Storia, economia, società, cultura; Rubbettino, Soveria Mannelli, 2012, vol. I, p. 29.
    70) ENZO CICONTE, FRANCESCO FORGIONE, ISAIA SALES: Le ragioni di un successo, cit., p. 14.
    71) ENZO CICONTE, FRANCESCO FORGIONE, ISAIA SALES: Le ragioni di un successo, cit., p. 43. Ho sostenuto una tesi del genere, a proposito della storia della delinquenza organizzata a Napoli, nell’articolo La delinquenza organizzata. Un elemento strutturale della società napoletana (2016). (Si veda www.academia.edu/38759420/FRANCO_P...3%A0_napoletana).
    72) ENZO CICONTE, FRANCESCO FORGIONE, ISAIA SALES: Le ragioni di un successo, cit., p. 21.
    73) ENZO CICONTE, FRANCESCO FORGIONE, ISAIA SALES: Le ragioni di un successo, cit., p. 41.
    74) ENZO CICONTE, FRANCESCO FORGIONE, ISAIA SALES: Le ragioni di un successo, cit., p. 33.
    75) ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA, ALDO SCHIAVONE: Una profezia per l'Italia. Ritorno al Sud; Mondadori, Milano, 2021.
    76) ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA, ALDO SCHIAVONE: Una profezia per l'Italia, cit., pp. 106-107.
    77) ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA, ALDO SCHIAVONE: Una profezia per l'Italia, cit., pp. 60-61.
    78) ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA, ALDO SCHIAVONE: Una profezia per l'Italia, cit., pp. 79-80.
    79) ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA, ALDO SCHIAVONE: Una profezia per l'Italia, cit., pp. 56-57.
    80) ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA, ALDO SCHIAVONE: Una profezia per l'Italia, cit., pp. 62-63.
    81) ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA, ALDO SCHIAVONE: Una profezia per l'Italia, cit., pp. 63-64.
    82) ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA, ALDO SCHIAVONE: Una profezia per l'Italia, cit., pp. 150-151.

    Edited by Franco Pelella - 20/10/2022, 11:20
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