1. Lombroso cent'anni dopo: una rassegna critica (1)

    By Franco Pelella il 21 Feb. 2022
     
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    Le accuse di George Mosse e Mary Gibson

    Silvano Montaldo, nel saggio introduttivo al volume Cesare Lombroso cento anni dopo, ha fatto una rassegna degli studi su Lombroso pubblicati negli anni più recenti. Egli ha riportato, tra gli altri, il giudizio dello storico americano George Mosse secondo il quale “la definizione data da Lombroso della criminalità entr[ò] a far parte della soluzione finale del problema ebraico attuata da Hitler” (2). Secondo Montaldo “Per il grande studioso del nazismo e del nazionalsocialismo, Lombroso, che non era personalmente un razzista, ma un liberale e un ebreo che sino alla morte credette alla completa assimilazione degli ebrei, ebbe un’influenza decisiva sul pensiero razziale, avendo dato una forte legittimazione a quella corrente scientifica che assumeva le caratteristiche fisiche come indizi esterni delle condizioni mentali” (3).
    Ma il discorso su Lombroso va, secondo me, impostato in modo differente da Mosse perché il fondatore dell’Antropologia criminale, per il tipo di studi che ha fatto, correva inevitabilmente il rischio di essere male interpretato. Avendo cioè egli condotto approfondite ricerche antropologiche sull’uomo delinquente (ma anche sull’uomo di genio, sui malati mentali, sulle donne, ecc.) era inevitabile che esse evidenziassero le differenze esistenti tra le varie categorie di persone studiate e all’interno delle stesse categorie e che c’era il rischio che queste differenze potessero essere strumentalizzate per attuare politiche discriminatorie. Ma va sottolineato con forza che ogni tipo di conoscenza può essere utile al genere umano e lo scienziato non deve preoccuparsi particolarmente del cattivo utilizzo che può essere fatto delle sue ricerche. Si pensi a quanta ricerca di base sarebbe stata storicamente bloccata se si fosse sempre applicata con rigidità questa logica. Chi va criticato non è lo studioso che elabora teorie i cui effetti possono essere anche, indirettamente, pericolosi per il cattivo uso che di esse possono fare gli altri uomini, ma lo scienziato che lavora direttamente e coscientemente alla produzione di strumenti di morte e di oppressione. Va condannato, ad esempio, non chi studia le possibili forme di utilizzo pacifico dell’energia nucleare ma chi progetta la bomba atomica, perché lo studio delle varie forme di utilizzo pacifico dell’energia nucleare può apportare benefici effetti all’umanità mentre la costruzione delle bombe atomiche porta sicuramente a considerevoli pericoli di distruzione del genere umano. Allo stesso modo va sicuramente condannato Gunther, che ha teorizzato l’opportunità del genocidio degli ebrei, magari prendendo spunto anche dalle teorie sulle differenze tra le razze elaborate da Lombroso, ma non Lombroso che non ha mai proposto alcuna forma discriminatoria nei confronti degli appartenenti a razze particolari e tanto meno lo ha fatto nei confronti degli ebrei essendo egli ebreo e considerando, in generale, gli ebrei come uomini di notevole livello morale ed intellettuale (4). Così come vanno criticati anche Enrico Ferri e altri amici e collaboratori di Lombroso perché furono essi, e non il fondatore dell’Antropologia criminale, a trasformare il positivismo criminologico in uno strumento al servizio del regime fascista (5).
    Silvano Montaldo ha citato poi un famoso studio della storica Mary Gibson (6). Egli ha affermato che “In sostanza, come per Mosse, anche per Mary Gibson, «le teorie biologiche della delinquenza contribuirono a formare un’atmosfera culturale e politica propizia alle politiche di eugenetica e persino allo sterminio degli anni trenta e quaranta del XX secolo». Il vizio era in origine, poiché l’Antropologia criminale, pur essendo stata formulata da un intellettuale progressista, aveva fin dall’inizio subordinato il rispetto dei diritti individuali alle esigenze poste dalla difesa della società ” (7) (8). L’accusa di Mary Gibson ricalca un diffuso luogo comune ma, secondo me, si tratta di opinioni non fondate perché Lombroso non è stato un sostenitore di politiche discriminatorie né nei confronti di appartenenti ad altre razze né nei confronti delle donne, dei delinquenti e dei malati mentali. Lombroso studiò le differenze antropologiche esistenti tra l’uomo e la donna e giunse alla conclusione, sicuramente errata, che, generalmente, vi era un inferiorità intellettuale della donna rispetto all’uomo. Ciononostante egli non riteneva giusto che fosse applicato alcun tipo di discriminazione nei confronti delle donne perché “…se dovemmo provare che nella mente e nel corpo la donna è uomo arrestato nel suo sviluppo, il fatto che essa è assai meno delinquente di lui, e che ne è tanto più pietosa, può compensarne a mille doppi la deficienza nel mondo dell’intelletto” (9). Ma aggiungeva anche “…non una linea di quest’opera giustifica le molte tirannie di cui la donna è stata ed è tuttora vittima: dal tabù che le vieta di mangiare le carni o di toccare le noci di cocco, fino a quello che le impedisce di imparare e, peggio, di esercitare una professione una volta imparata: coercizioni ridicole o crudeli, prepotenti sempre, colle quali certo abbiamo contribuito a mantenere, e, quel che è più triste, ad accrescere la inferiorità sua, per sfruttarla a nostro vantaggio, anche quando ipocritamente coprivamo la docile vittima di elogi a cui non credevamo, e che, piuttosto di un ornamento, erano una preparazione a nuovi sacrifici”(10).
    Ma, come già detto, neanche nei confronti del delinquente, e del deviante in genere, Lombroso ha manifestato tendenze discriminatorie. Pur segnalando, infatti, la presenza nel deviante di caratteristiche proprie che derivavano, a suo parere, anche da tare ereditarie e pur teorizzando sulla presenza, in molti devianti, di un atavismo che li induceva ad avere comportamenti propri degli uomini primitivi, Lombroso non ha mai dedotto da queste teorie (sicuramente molto discutibili sul piano scientifico) che il deviante, solo in quanto tale, doveva essere punito dagli altri uomini. Egli non ha, cioè, mai sostenuto, come incautamente si è voluto affermare, che il deviante “deve soggiacere alle punizioni inevitabili degli eletti” (11). Lombroso ha invece espresso, a partire dalla prima edizione de L’uomo delinquente, pubblicata nel 1876, una concezione della pena non di tipo punitivo ma, piuttosto, di tipo terapeutico e rieducativo. Il passo che riportiamo è molto chiaro in proposito. Dice infatti Lombroso: “Io non ammetterei… i riformatori per gli adulti se non quando vi si raccolgano pochi individui, divisi per classi, costumi, attitudini, sorvegliati uno per uno, e diretti da uomini veramente adatti, che ne facciano un apostolato. E piuttosto che i molteplici regolamenti contro la fiumana del male, credo converrebbe studiare il modo di plasmare, scoprire tali uomini, e metterli a posto, quando si sieno trovati”. E aggiunge: “Ma quando questi uomini manchino, e quando i contatti tra le varie classi, pel troppo numero, non si possono più evitare, credo preferibile il consegnare i corrigendi a famiglie morali ed energiche, e allontanarli dai centri corruttori della capitale o dei capoluoghi…Qui la carità, o meglio la previdenza, deve assumere forme nuove, abbandonare la via cappuccinesca dell’elemosina e la soldatesca violenza della carcere e della caserma, ed anche quella dell’astratta morale, che negli inclini al delitto non potrebbe aver presa, né molto curarsi dell’istruzione alfabetica, che lascia il cuore come lo trova; deve assumere invece le vesti dell’industria, della cooperazione; deve far nascere a poco a poco, e celando la mano benefica, il piacere della proprietà, l’amore del lavoro, il senso del bello. Conviene dunque sostituire al carcere, al riformatorio, l’asilo spontaneo, la scuola industriale” (12).
    Queste opinioni sono, in gran parte, ancora oggi valide e condivisibili poiché da esse emerge una concezione sicuramente moderna della politica carceraria. Ma moderna, e sicuramente non repressiva, era anche la concezione lombrosiana della politica psichiatrica. Questo importante aspetto del pensiero di Lombroso è stato opportunamente sottolineato quando si è scritto che: “Di questo periodo [dal 1871 al 1873] è importante ricordare soprattutto le grandi riforme che egli introdusse nel manicomio di Pesaro, ispirandosi ai principi delle ‘porte aperte’ (open door) e della non costrizione (no restraint), che venivano allora propagandati specialmente dagli psichiatri inglesi. I pazzi di Pesaro.….poterono così beneficiare di una relativa libertà e di un ambiente di serenità e di svago, disponendo di musica, libri, trattenimenti teatrali, ecc. Ciò va soprattutto segnalato a chi, ancora oggi, denigra l’opera di Lombroso, presentandolo come un retrivo conservatore o addirittura un razzista. A costoro si dovrebbe ricordare che fu proprio Lombroso a sostenere, molto audacemente rispetto alle concezioni imperanti alla sua epoca, la derivazione dei processi psicopatologici, attraverso trasformazioni, dai processi mentali dell’uomo normale” (13).
    Silvano Montaldo ha, poi, giustamente sottolineato che “…Luisa Mangoni collocò Lombroso e i suoi allievi al centro di un’indagine sugli scambi fra la cultura italiana e quella francese all’epoca delle prime manifestazioni della società di massa.” (14) (15) e che secondo la suddetta studiosa la lezione di Lombroso superò di gran lunga i confini della criminologia, ibridando non solo le nascenti scienze sociali, ma anche la letteratura, l’arte, la critica letteraria ed artistica; la personalità e la scuola di Lombroso dominarono la cultura italiana nell’ultimo ventennio del XIX° secolo, quando le scienze sociali avevano sopravanzato i più tradizionali interessi storici, economici e letterari della borghesia (16).
    Allo stesso modo sono condivisibili le cose scritte nel primo capitolo del volume Cesare Lombroso cento anni dopo da Delia Frigessi, autrice di un’importante biografia di Lombroso (17). In particolare è stata opportuna la sua inquadratura della figura di Lombroso nel suo tempo. Secondo lei le idee di Lombroso sono “circolate in numerosi contesti, italiani e internazionali, dalla sfera del diritto e della sociologia al campo della psichiatria, della letteratura e della cultura politica. Questo perché Lombroso ha affrontato alcuni dei problemi più importanti che sollecitavano e inquietavano la società del suo tempo: la diversità del delinquente e la natura del delitto, le idee di responsabilità e di imputabilità che stanno alla base di un nuovo diritto penale, i caratteri dell’uomo di genio e i meccanismi della creatività artistica, la questione femminile, la questione anarchica, l’antisemitismo e, finalmente, le leggi che governano l’andamento della società. Lombroso, insomma, impersona la figura del medico antropologo, sociologo e filosofo, che analizza anche il corpo sociale e agisce da protagonista di un nuovo orientamento culturale, proprio nel momento in cui le scienze della vita, nella seconda metà dell’Ottocento, diventano protagoniste della nuova filosofia naturale e positiva” (18).

    «L’Uomo delinquente»: la lettura di Daniele Velo Dalbrenta

    Il filosofo del diritto Daniele Velo Dalbrenta ha esaminato in modo accurato L’uomo delinquente, l’opera principale di Lombroso. Egli ha citato quanto ha scritto alla metà del secolo scorso il giurista statunitense George W. Kirchwey: “[s]embra incredibile, ma è nondimeno un fatto che, prima della pubblicazione de L’uomo delinquente di Lombroso, […] non era mai stato offerto un serio approccio scientifico allo studio del criminale” (19). E ha aggiunto che sarebbe opportuno comprendere “che cosa ha reso epocali le ricerche antropologico-criminali lombrosiane, pure del tutto prive di precedenti storici, facendone una vera e propria sistematica di discipline – scientifiche, para-scientifiche e umanistiche – le quali, prima di Lombroso, non avevano conosciuto alcun completo tentativo di collegamento tra loro. Che cosa, in definitiva, può spiegare la rivoluzione antropologico-criminale, il suo impatto, subitaneo e senza precedenti, sulla stessa percezione sociale del fenomeno criminale?” (20). La sua risposta è stata la seguente: “…il carattere rivoluzionario dell’Antropologia criminale risiede nel metodo; più precisamente, nel metodo scientifico, e, più precisamente ancora, nel metodo messo a punto in età moderna per le scienze sperimentali, il cosiddetto metodo galileiano…” (21). La mia convinzione è invece un’altra. Secondo me il carattere rivoluzionario dell’Antropologia criminale risiedeva nell’utilizzo contemporaneo non di uno ma di due metodi innovativi: il metodo galileiano e il metodo indiziario (22). E’ stato lo stesso Daniele Velo Dalbrenta a descrivere l’utilizzo di due metodi differenti da parte di Lombroso e dei suoi allievi considerandoli, impropriamente, come un metodo unico. Dapprima egli ha scritto che “…il metodo galileiano veniva essenzialmente a consistere nell’osservazione e descrizione del fenomeno delinquenziale, il quale, rapportato immediatamente alla persona del delinquente che vi aveva dato corpo, veniva trasposto entro il mondo delle cifre, e cioè sottoposto a misurazione, classificazione, riduzione statistica mediante i dati ricavati dagli appositi strumenti di precisione” (23). Subito dopo ha precisato che Lombroso, affiancato da uno stuolo di collaboratori “…bazzicò carceri mandamentali e manicomi criminali raffrontando le risultanze emerse su organi, funzionalità, proporzioni, alterazioni fisiologiche, malformazioni e scompensi vari, traumi menomazioni, ferite, ecc., raccogliendo corpi di reato e oggetti vari (scritti, disegni, graffiti, oggetti, manufatti, suppellettili, decorazioni ecc.), ritraendo volti, tatuaggi, schemi di andature e quanto d’altro. Per annotare, confrontare, catalogare scrupolosamente tutto, ma proprio tutto il possibile” (24).
    I due metodi avevano una natura diversa l’uno dall’altro. Uno si può definire di tipo verticale in quanto era volto a studiare in modo approfondito il corpo del delinquente mediante una serie di dati e di osservazioni raccolte attraverso l’utilizzo di strumenti di misurazione vari. L’altro si può definire di tipo orizzontale in quanto era volto a raccogliere tutte le informazioni possibili sulla figura del delinquente utilizzando le fonti più svariate ma esterne al suo corpo. Vivendo egli in’epoca dominata da una cultura idealistica, nella quale il pensiero scientifico faceva molta fatica ad affermarsi, è indubbio che l’utilizzo del “metodo galileiano” da parte di Lombroso (mediante la misurazione e la classificazione di una miriade di corpi) costituiva un elemento di grossa innovazione nella ricerca culturale. Ma la mia opinione è che tra i due metodi il più innovativo era il secondo perché ci sono pochissimi casi nella storia di un utilizzo così costante e sistematico del metodo indiziario nella ricerca culturale. Cesare Lombroso può essere considerato un vero e proprio precursore (25). Probabilmente il merito principale di Lombroso è stato quello di aver utilizzato un approccio di tipo indiziario che era globale perché lo portava a ricavare i segni per giungere a definire la psicologia del deviante da ogni fonte possibile, non solo dal corpo umano. L’utilizzo di tale metodo lo portava talvolta ad intuire delle analogie, delle connessioni tra le cose che erano profondamente innovative anche se non gli era possibile analizzare compiutamente tutte le relazioni che intuiva; il fatto, però, di rendere esplicite molte delle sue intuizioni, senza sostenerle con dati di fatto concreti, dava l’impressione a molti che ci fosse una notevole dose di approssimazione nel suo lavoro. Ma ciò si spiega considerando che egli, attraverso l’utilizzo del paradigma indiziario, intendeva pervenire alla scoperta del fatto nuovo, nascosto, non ancora codificato, evitando di passare attraverso la seriosità del linguaggio scientifico ufficiale, dando cioè ai propri argomenti di studio «una forma, che meno risentisse di quella burbanza accademica, che cerca nella noia l’apparenza della gravità» (26). Alla base del metodo lombrosiano c’era la convinzione, oggi riconosciuta da molti perfettamente legittima, che per giungere al contesto della scoperta, nell’ambito del lavoro scientifico, non bisogna necessariamente mantenersi all’interno di confini metodologici e disciplinari ben prefissati.
    Si pone, però, un problema. Poteva essere il primo metodo definito effettivamente galileiano, nel senso che i risultati scientifici raggiunti studiando ogni singolo delinquente potevano essere generalizzati? Se si tiene presente quanto ha autorevolmente sostenuto Carlo Ginzburg ciò non era possibile. Ginzburg, a proposito di alcune discipline (critica d’arte, psicoanalisi, diritto, medicina, storiografia, filologia, ecc.) ha sostenuto che “….è chiaro che il gruppo di discipline che abbiamo chiamato indiziarie (medicina compresa) non rientra affatto nei criteri di scientificità desumibili dal paradigma galileiano. Si tratta infatti di discipline eminentemente qualitative, che hanno per oggetto casi, situazioni e documenti individuali, in quanto individuali, e proprio per questo raggiungono risultati che hanno un margine ineliminabile di aleatorietà: basta pensare al peso delle congetture (il termine stesso è di origine divinatoria) nella medicina o nella filologia, oltre che nella mantica. Tutt’altro carattere aveva la scienza galileiana, che avrebbe potuto far proprio il motto scolastico individuum est ineffabile, di ciò che è individuale non si può parlare” (27). E l’Antropologia criminale rientra sicuramente tra le discipline definibili “indiziarie” secondo i criteri utilizzati da Ginzburg. Molti dei risultati aleatori raggiunti da Lombroso nel corso delle sue ricerche si spiegano con la probabilmente ineliminabile contraddizione tra la pretesa generalizzabilità dei risultati conoscitivi raggiunti studiando il corpo e la psicologia dei delinquenti e la singolarità degli individui studiati. Questo, probabilmente, è stato il suo principale errore.
    Ma ciò vuol dire che le conoscenze ottenute da Lombroso sono da considerare inutilizzabili? Se nel fare ciò si utilizza il criterio del metodo galileiano sicuramente esse non sono utili. Ma se i criteri di giudizio sono altri il discorso cambia. Lo stesso Carlo Ginzburg ha sostenuto che “L’indirizzo quantitativo e antiantropocentrico delle scienze della natura da Galileo in poi ha posto le scienze umane in uno spiacevole dilemma: o assumere uno statuto scientifico debole per arrivare a risultati rilevanti, o assumere uno statuto scientifico forte per arrivare a risultati di scarso rilievo” (28). L’antropologia criminale praticata da Cesare Lombroso mi sembra un tipico caso di scienza umana con uno statuto scientifico debole che, però, è pervenuta a risultati conoscitivi rilevanti.
    La convinzione di fondo di Lombroso era che i delinquenti (ma anche i malati mentali e i geni) avevano una loro psicologia particolare. La sua convinzione era sostenuta da miriadi di osservazioni fatte nei secoli sia da studiosi che da uomini comuni, sia dalla cultura ufficiale che dalla cultura popolare, alle quali egli giustamente attribuiva una quasi pari dignità. Per dimostrare che i delinquenti, i malati mentali e i geni avevano una loro specifica psicologia egli decise di ricorrere ai due suddetti metodi. Lombroso (contagiato dall’ottimismo positivistico relativo ai risultati raggiungibili dalla scienza dell’epoca in cui visse) era convinto, sbagliando, che, in questo modo, avrebbe raggiunto risultati conoscitivi che erano totalmente generalizzabili. Ciò non toglie, però, che i delinquenti, i malati mentali e i geni hanno alcune caratteristiche psico-fisiche proprie che sono generalizzabili e che la conoscenza approfondita di queste caratteristiche può rivelarsi molto utile. E Lombroso è stato, probabilmente, colui il quale è storicamente pervenuto alla conoscenza più approfondita di queste caratteristiche.
    E’ stato giustamente sostenuto che “Il programma del Lombroso, e della sua scuola, dal Ferri al Morselli, di sostituire al delitto penale quello criminale biologico nel quale non si tratta più di irrogare pene né di rubricare delitti astrattamente previsti secondo moduli millenari rispondenti a un ‘ordine’ o ‘sistema’ politico-sociale ma non alla personalità patologica concreta, cioè all’uomo che delinque contro valori umani essenziali, bensì di difesa e di cura è da considerare tuttora, come quella relativa alla terapia e al recupero dei pazzi con metodi attivi, una tappa fondamentale verso altri criteri soltanto oggi più ampiamente svolti” (29)
    Lombroso si serviva dei proverbi per segnalare l’esistenza di conoscenze relative ai caratteri fisionomici dei delinquenti (30). Attraverso l’uso dei proverbi (ma anche delle favole e delle canzoni popolari) egli introdusse un parallelismo chiaramente anticipatore tra alta cultura e bassa cultura, ponendole in pratica su un piano di pari dignità; la sua convinzione, a questo proposito, era che il tempo sostituisce la ragione nelle conoscenze popolari, in modo tale che “….le secolari, ripetute osservazioni tramandate colla tradizione, colle favole e colle canzoni, di padre in figlio, tennero luogo dei meditati calcoli del genio” (31). Ma egli traeva anche dal gergo utilizzato dai delinquenti uno spunto per analizzarne i caratteri psicologici. Secondo Lombroso i delinquenti “adoperano…come i selvaggi, di frequente l’onomatopeia, l’automatismo, la personificazione degli oggetti astratti” (32).
    Allo stesso modo lo studio approfondito della psicologia di alcuni geni lo aveva portato a segnalare alcuni esempi di eccentricità: “….nelle arti belle l’esagerata minuzia o l’abuso di simboli, delle epigrafi o degli accessori, la preferenza di un dato colore, la stessa sfrenata ricerca del nuovo (come nell’epoca del Barocco) possono rasentare l’indizio morboso del mattoidismo come nelle lettere e scienze la frequenza dei bisticci, l’esagerazione dei sistemi, la tendenza a parlare di sé, a sostituire l’epigramma alla logica, la troppa propensione al verso o alle assonanze nella prosa, la stessa esagerata originalità, possono tenersi per fenomeni morbosi; e così lo scrivere in forma biblica, a piccoli versetti e con parole speciali, sotto segnate o ripetute più volte, e con bisticci” (33). Infine, relativamente ai malati mentali, è stato riconosciuto il carattere anticipatore del metodo lombrosiano quando si è sostenuto che i disegni degli ospiti dei manicomi raccolti durante la sua carriera di psichiatra da Lombroso “non sono altro che le aste della psicopatologia dell’espressione degli anni ’60-‘70” (34) e quando si è scritto che fu Lombroso a sostenere, molto audacemente rispetto alle concezioni imperanti alla sua epoca, “la derivazione dei processi psicopatologici, attraverso trasformazioni, dai processi mentali dell’uomo normale” (35).
    Daniele Velo Dalbrenta ha fatto, poi, altre affermazioni non del tutto condivisibili. Secondo lui “…ciò che sorreggeva Lombroso nel condurre le sue infaticabili, smaniose e spesso strampalate incursioni, nel mondo della devianza come in qualsiasi campo dell’esperienza, era la fede che fosse l’adesione ai fatti, in ultimo, a premiare la ricerca scientifica; senza peraltro minimamente interrogarsi su cosa significhi «aderire» ai fatti. Addirittura, se dovessimo utilizzare parametri contemporanei non potremmo che constatare il passare in secondo piano, nelle ricerche lombrosiane, di tutto ciò che nel tempo verrà a costituire indice di rigore scientifico: da cui i fulminei accostamenti, il deduttivismo sbrigativo, la disinvoltura nel ricavare, trattare e travasare i dati raccolti, le precoci generalizzazioni, le traballanti statistiche, il privilegiare l’estemporanea associazione sulla razionalizzazione, il disordinato ammassare sull’organizzazione del discorso” (36). Ma, fatta salva la sostanziale fondatezza di alcune di queste accuse, il lavoro di Lombroso va inquadrato nell’epoca in cui egli visse. Egli riteneva, per esempio, di essere pienamente inserito all’interno del filone culturale positivistico, il cui principale obiettivo era quello di opporre all’idealismo allora dominante il fatto oggettivo, la cifra. Questo fu il motivo per cui egli fece ricorso in modo così massiccio all’antropometria, una disciplina allora emergente la cui validità scientifica non era stata ancora pienamente sperimentata. L’utilizzo dell’antropometria da parte di Lombroso non deve, però, essere ritenuto una grossa colpa. Per Lombroso, infatti, può valere lo stesso discorso che si è fatto per Achille De Giovanni, un famoso clinico vissuto tra Ottocento e Novecento, sostenendo la validità permanente del nucleo metafisico delle sue teorie costituzionaliste e ritenendo, invece, superati gli strumenti antropometrici che egli utilizzava sul piano pratico (37). Gli strumenti antropometrici erano gli unici che si potevano utilizzare in quell’epoca perché allora non si era ancora verificato lo sviluppo della chimica biologica, delle cui scoperte oggi la medicina può utilmente usufruire. Il ricorso all’antropometria può quindi, oggi, essere considerato un atto obbligato dato che «Lombroso operava con gli strumenti che la scienza gli metteva a disposizione un secolo fa piegandoli allo studio di un problema nuovo» (38).
    Daniele Velo Dalbrenta ha, poi, giustamente sostenuto che “….essendo sempre stato molto più facile farvi dell’ironia che non confrontarvisi seriamente, mi sembra che il Lombroso padre dell’Antropologia criminale non sia mai stato, di principio, confutato. A questo modo si è passati, nel breve volgere di alcuni anni, dall’esaltazione al dileggio senza mai soffermarsi sulle ragioni dell’una e dell’altro; non comprendendo che, oggi come ieri, la vera sfida è prendere sul serio Lombroso e i problemi che egli ha avuto il merito di porre sul tavolo” (39). Bisogna cioè comportarsi come il grande economista Vilfredo Pareto, il quale, dovendo dare una valutazione de L’uomo delinquente, seppe giudicare con equilibrio l’opera lombrosiana. Egli scrisse infatti: “Pare proprio che qualche relazione tra le qualità psichiche e le qualità materiali dell’uomo ci sia, onde è opportuno che la scienza indaghi l’indole di quella relazione e ne faccia uno studio preciso e minuto. Il Lombroso ha avuto il merito grande di avere principiato quello studio e di avere raccolto molti e molti fatti che possono servire a porre in luce quella relazione. Non è ora lecito di negare che qualche nesso ci sia tra la disposizione alla delinquenza e certi caratteri fisici dell’essere umano. Cio è in fondo la parte sostanziale della teoria di Lombroso. Ma la disposizione alla delinquenza altro non è se non un caso particolare delle disposizioni in genere, che spingono l’uomo ad operare in questo o questo altro modo, onde, indirettamente, i fatti messi in luce dal Lombroso vengono in sussidio alla teoria la quale nei caratteri fisici degli uomini componenti una data società vede uno dei fattori di non lieve momento del fenomeno economico e del fenomeno sociale” (40).
    Pareto ha sostenuto giustamente che la teoria sulla corrispondenza tra qualità psichiche e qualità materiali dell’uomo è stata la parte fondamentale delle teorie lombrosiane; ma egli ha sbagliato quando ha affermato che Lombroso “ha principiato quello studio”, perché Lombroso stesso, e i suoi seguaci, hanno indicato i precursori di Lombroso tra i pensatori che nei secoli passati hanno teorizzato la validità della fisiognomica e della semeiotica per condurre lo studio psicologico dell’uomo (41). Ciò che, piuttosto, va detto è che il grande merito di Lombroso è stato quello di lavorare strenuamente per tentare di fornire un supporto di dati materiali a osservazioni che per migliaia di anni sono state di tipo quasi esclusivamente intuitivo. Lombroso, cioè, probabilmente è stato il più tenace nel tentare di far entrare nell’ambito del discorso scientifico un tipo di sapere che per secoli è stato relegato in un ambito para-scientifico, fino al punto di essere considerato un sapere quasi magico.
    Daniele Velo Dalbrenta, infine, ha affermato giustamente che “….il contributo antropologico-criminale di quel Lombroso che, oggi come ieri, sembra atterrire anime pie e benpensanti, è diventato già – in qualche modo – parte integrante del pensiero contemporaneo, quantomeno in forma di costellazione di problematiche di rilevanza scientifica e penalistica sulle quali è necessario tornare continuamente a riflettere” (42). Secondo Velo Dalbrenta “Sul piano strettamente scientifico, si registrano invero da tempo certune conferme metodologiche del discorso antropologico-criminale, non meno che un costante riemergere, sotto mentite spoglie, dello stesso biodeterminismo à la Lombrose: i casi più eclatanti sembrano costituiti dagli studi condotti su certe anomalie cromosomiche (in particolare sui cosiddetti maschi XYY), dagli studi condotti sul «destino criminale» dei gemelli e, da ultimo, dagli studi condotti dalle neuroscienze. Per quel che attiene poi al piano strettamente penalistico, possiamo invece appuntare che con Lombroso è venuta alla luce, e può considerarsi ormai recepita nella generalità degli ordinamenti penali contemporanei, la necessità di considerare, in sede di giudizio penale, l’incidenza della personalità del delinquente, ricorrendo a tutti gli indici empirici possibili, nonché alle più recenti acquisizioni scientifiche e tecniche strumentali” (43).

    Roberto Beneduce e l’antropologia della devianza

    L’antropologo Roberto Beneduce nel suo saggio ha scritto che “Una riflessione antropologica sulla devianza….interseca fenomeni e definizioni che hanno percorso altri saperi e discipline (la medicina e la psichiatria, il diritto e la statistica, la sociologia, la teologia o la mitologia). Ma a che cosa rinvia il lessico della devianza? Etimologicamente trasgredire significa «passare oltre», «attraversare» e deviare sta per «allontanarsi dalla via». I limiti oltrepassati dalle devianze incarnate nel corpo dei deformi o agite nel corso di comportamenti non conformi alle regole sociali, non possono essere identificati soltanto con i vincoli fissati dalle norme scientifiche e giuridiche di una particolare epoca o i valori estetici e morali propri di una certa cultura, perché in ciascuna cultura limiti e trasgressioni sono a loro volta oggetto di dinamiche incerte, di definizioni provvisorie e controverse. Quei limiti sembrano rinviare a ragioni più oscure: come se il pensiero fosse disarcionato dal suo strumento più importante per fronteggiare il mondo, quello della classificazione” (44). Ma la mia convinzione è che le devianze, oltrepassando i limiti prefissati dalla società, rendono inutili le classificazioni preesistenti ma rendono, contemporaneamente, opportune ulteriori classificazioni per stabilire nuovi limiti. La classificazione serve a studiare un nuovo fenomeno e a metterlo (o a illudersi di metterlo) sotto controllo. Ma non necessariamente per fare gli interessi delle classi dominanti bensì, spesso, per rassicurare l’intero corpo sociale. Allo stesso modo la classificazione e la regolamentazione dell’immigrazione serve a rassicurare ampie fasce sociali e non solo le classi dominanti. Il motivo di fondo è che la presenza del diverso (criminale, malato mentale o immigrato) è motivo di turbamento per tutto il corpo sociale. Chi cerca di classificare e di neutralizzare i comportamenti non codificati di questi soggetti viene incontro a profonde esigenze sociali; forse anche in questo modo di spiega l’enorme popolarità di cui ha goduto uno studioso come Lombroso. Ma la cosa più incredibile è che agli inizi del ventunesimo secolo si continui a parlare il linguaggio della criminologia e della psichiatria critica, di derivazione marxista, degli anni ’60 e ’70 del secolo scorso; è assurdo che si continui ad attribuire solo alle classi dominanti la volontà di classificare e segregare il deviante.
    Beneduce afferma, poi, che “L’indifferenza verso il mondo…., la distanza da una vita collettiva e sottomessa alla «regola», rappresentano un pericolo per la norma e per il potere, interrogati e messi in discussione meno dalla critica dei loro fondamenti o dall’aperto dissenso quanto piuttosto da questa attitudine di autoesclusione, dal vagabondaggio di spiriti erranti, dal nonsenso della loro inerzia. Se i corpi apatici e silenziosi erano considerati in quanto tali disobbedienti, si può meglio comprendere perchè il potere abbia sempre sollecitato i corpi, esaltato le loro energie per poi assoggettarle o renderle «spettacolari» (dunque protagoniste dell’immaginario sociale): il potere non tollera nei corpi la resistenza e il silenzio, né permette che si producano oltre una certa soglia nicchie sociali sottratte al suo sguardo” (45). C’è da chiedersi: perché nel 2009 si parla ancora di un potere che vuole assoggettare i corpi? Non è stato lo stesso Michel Foucault, il principale ispiratore di Beneduce, a parlare dell’esistenza di una microfisica del potere all’interno della società? Anche se ciò dovrebbe voler dire, a differenza di quanto pensava lo stesso Foucault, che il potere è realmente diffuso e che quindi non appartiene in esclusiva né a determinati apparati politici né a categorie professionali particolari. Una sorta di potere (magari anche solo di resistenza) è esercitato anche dai delinquenti, dai malati mentali e dalla gente comune. Anche quando certi apparati politici e certe categorie professionali cercano di assoggettare chi devia dalla norma l’assoggettamento non è mai totale e rimangono sempre significative sacche di resistenza da parte di soggetti che non si piegano ai voleri di chi vuole dominare. E il tentativo di assoggettare chi devia dalla norma non deve essere necessariamente inteso come un tentativo di normalizzazione. In certe società e in certi momenti storici quando i comportamenti “devianti” superano una certa soglia di tollerabilità essi mettono in discussione l’assetto sociale preesistente. Ad esempio, il recente arrivo di un numero considerevole di “stranieri” nei Paesi dell’Europa occidentale ha prodotto, in ampie zone, situazioni di vera e propria anomia. I residenti storici, cioè, si sentono minacciati nella loro identità e nella loro condizione economica perché considerano la stragrande maggioranza degli immigrati come “devianti” rispetto alle norme preesistenti sul territorio. Una reazione diffusa, in questi casi, è il sostegno a movimenti politici che promettono di ripristinare le condizioni preesistenti.
    Scrive ancora Beneduce: “Il carattere di naturalità, di ovvietà che riconosciamo alle norme e alla realtà sociale, così come ai codici culturali che regolano il comportamento, sarebbe solo il riflesso di una particolare organizzazione di gerarchie, fatti e rapporti, di un sistema di distinzioni e classificazioni che ordina (o, meglio, istituisce) il mondo sociale e morale così come viene esperito e riprodotto” (46). Ma la mia opinione è che la realtà sociale non può essere considerata solo un sistema di gerarchie che vogliono perpetuarsi nel tempo. La realtà sociale è anche fatta di norme e comportamenti che costituiscono una sorta di pesi e contrappesi che si bilanciano, tendendo a mantenere un certo equilibrio complessivo. Nel momento in cui si verifica uno sbilanciamento eccessivo in alcune parti del corpo sociale (alla sommità, al centro o alla base di esso) ciò si ripercuote sull’assetto complessivo della società determinando squilibri che il corpo sociale stesso tende a regolarizzare. Per rimanere nel campo della delinquenza evidentemente nel corso della metà e della fine del diciannovesimo secolo in Italia questo fenomeno era diventato così rilevante da rendere urgente la necessità di ridimensionarne la carica distruttiva dell’ordine sociale. Probabilmente l’Antropologia criminale è nata per rispondere soprattutto a questa esigenza. Infatti nella metà degli anni ’70 dell’800 l’Italia faceva registrare un primato nei crimini: nel nostro Paese si verificavano maggiori crimini, ed in particolare maggiori omicidi che in tutti gli altri Paesi europei. Inoltre, a differenza che negli altri Paesi europei, dove in quegli anni aumentavano solo alcuni tipi di reato, in Italia si registrava una lievitazione nel numero di tutti i tipi di crimine (47).
    Afferma poi Beneduce, parlando del 19° secolo: “L’esuberanza sessuale o il libertinaggio, per esempio, rappresentavano una minaccia non più soltanto morale e non tanto per i doveri privati (quelli coniugali) quanto per quelli che il cittadino doveva assumere nei confronti dello Stato. I trattati sull’onanismo, i manuali che si preoccupano di elaborare il modello della buona famiglia e di porre elementari regole di eugenetica segnano, a questo riguardo, una vera svolta. Essi esprimono la volontà, da parte dello Stato, di occuparsi della vita degli individui, dei loro corpi e delle loro abitudini, della religione e della sicurezza pubblica, e reciprocamente riconducono in modo esplicito questa cura al bisogno che lo Stato moderno ha di individui sani, vigorosi, in grado di lavorare, di riprodursi o di andare in guerra” (48). Ma, secondo me, parlare di Stato in senso generico non aiuta a capire. Sicuramente ci sono stati apparati dello Stato che erano attenti ai doveri ai quali dovevano sottostare i cittadini. Ma questi apparati sono solo una parte dello Stato. La voglia di controllare, quindi, non era generalizzata ma apparteneva solo ad alcuni di essi, a quegli apparati cioè che erano fortemente legati alla religione cattolica e ai suoi precetti.
    Beneduce cita poi ancora Foucault per affermare che secondo il filosofo francese “…la disciplina esercita il suo ruolo e dispiega i suoi effetti non come istituzione, né identificandosi in un apparato” (49). Afferma Beneduce che secondo Foucault la disciplina “….è un tipo di potere e una modalità per esercitarlo […] essa è una «fisica» o una «anatomia» del potere, una tecnologia. E può essere presa in carico sia da istituzioni «specializzate» […], sia da istituzioni che se ne servono come strumento essenziale per un fine determinato […], sia da istanze preesistenti che vi trovano il mezzo per rinforzare o riorganizzare i loro meccanismi interni di potere […] sia da apparati che hanno fatto della disciplina il loro principio di funzionamento interno […]. Essa assicura una distribuzione infinitesimale del potere” (50). E’ vero che la disciplina assicura una distribuzione infinitesimale del potere. Ma anche la resistenza alla disciplina è una forma di potere. E quando il potere di resistenza alla disciplina raggiunge limiti che il resto della società e dello Stato ritengono intollerabili allora scatta il tentativo di disciplinare ulteriormente questo potere. L’iniziativa, quindi, non è sempre degli apparati dello Stato o delle istituzioni specializzate nella repressione. La loro iniziativa può essere anche una risposta ad una iniziativa proveniente dalla società.
    Afferma, inoltre, Beneduce che “Oggi i «mostri» sono sempre più spesso individui «normali», ineccepibili, responsabili di atti devianti «invisibili», «privati», mentre accade che violenze e atrocità siano compiute dai rappresentanti di stati democratici con la stessa efferatezza che caratterizza gli atti compiuti da gruppi criminali” (51). E’ vero che spesso gli Stati, anche quelli democratici, si rendono responsabili di atti criminali, anche efferati. Ma non mi sembra vero che sempre più spesso coloro che sono additati come mostri sono individui “normali”. Forse è vero il contrario: sempre più spesso individui “normali” compiono atti mostruosi (stupri, uccisioni efferate, sfregi, ecc.). Non mi sembra, cioè, che nella società odierna ci sia la volontà di trovare ad ogni costo il fatto mostruoso anche nella normalità dei comportamenti.
    Dice Beneduce: “….le «figure» della devianza rivelano per intero le preoccupazioni e le fragilità delle società considerate, le ansie che assediano individuo e gruppi, le ideologie che definiscono di volta in volta lo statuto delle frontiere e delle differenze (interne quanto esterne) di ciascuna cultura. Queste figure nel portare alla luce i molti significati della trasgressione e della sua sanzione, rappresentano così un modo privilegiato per conoscere una società e le sue finzioni: come per la medicina, anche per l’antropologia e la sociologia è facile assumere l’analisi della devianza come un percorso privilegiato per analizzare l’organizzazione di una società. Nel definire confini, nell’istituire gerarchie e principi di classificazione della devianza, ogni epoca e ogni cultura rivelano, in definitiva, la loro cifra più segreta, la struttura sulla quale prendono corpo le istituzioni e si riproducono pratiche, miti, sanzioni” (52). Ma l’analisi della devianza non deve essere considerata solo in chiave repressiva ma anche come l’assunzione di un punto di vista privilegiato per esaminare le problematiche più rilevanti della società. Spesso si tratta di pratiche sgradevoli ma che rivelano le pieghe più nascoste (o che comunque si tenta di nascondere maggiormente) della società. Spesso il disinteresse per lo studio di questi aspetti della vita sociale provoca anche una mancata, piena conoscenza di essa e quindi una scarsa capacità di intervento per la soluzione dei problemi sociali provocati dall’esistenza di queste differenze. Lombroso invece, e assieme a lui altri scienziati positivisti, aveva evidentemente deciso di disinteressarsi dei possibili pericoli connessi alla divulgazione delle conoscenze relative a questi tipi di problemi. Fu sicuramente questo uno dei motivi degli effetti rivoluzionari provocati dalla sua attività scientifica e una delle ragioni non ultime della diffusa popolarità raggiunta dalle sue teorie.
    Beneduce, infine, ha sostenuto che “La presenza massiccia di detenuti stranieri nelle nostre carceri, la criminalizzazione degli immigrati e dei clandestini, la facilità con la quale umori oscuri e razzisti precipitano (nel senso chimico del termine) su di essi, costituiscono traiettorie eloquenti delle recenti forme di produzione della devianza. Nel crogiuolo dove si mescolano leggi che mettono in discussione i diritti elementari dei cittadini stranieri e strategie di esclusione, nuove forme di povertà ed economie informali, ghettizzazione delle minoranze e crescenti incertezze sociali, l’immigrazione costituisce il luogo di produzione di una nuova tipologia della devianza nella quale confluiscono frammenti di discorsi e classificazioni del passato (la figura del «migrant aliéné» e dell’«aliéné voyageur», etichette ignobili: talvolta le stesse che un tempo nominavano i colonizzati ricorrendo al lessico dell’animalizzazione)….I clandestini, gli zingari, i minori «non accompagnati» definiscono aree opache di sopruso, di violenza e di in distinzione al cui interno sembrano riprodursi i devianti della globalizzazione” (53). E’ vero che gli immigrati e i clandestini costituiscono i “nuovi devianti”, coloro cioè sui quali si concentrano gli sguardi di coloro i quali tendono a preservare l’integrità del loro quartiere e delle loro tradizioni e che si sentono minacciati dai nuovi arrivati. E’ vero anche che questi sentimenti possono sconfinare nel razzismo e nella produzione di comportamenti maggiormente devianti. Ma bisogna, forse, comprendere che quando la presenza dello straniero diventa massiccia a sentirsi minacciati fin nel loro intimo non sono solo coloro che hanno una mentalità già apertamente ostile agli immigrati ma anche coloro che non sono pregiudizialmente ostili. In questi casi il compito della politica dovrebbe essere quello di guidare i processi di inserimento dello straniero per rendere tale processo accettabile da parte della maggioranza dei cittadini. Ma lo stesso discorso può, forse, valere per la criminalità. Quando il fenomeno diventa aggressivo e diffuso c’è bisogno di un intervento forte e deciso da parte delle istituzioni per impedire che la maggioranza della popolazione richieda misure ultrarepressive (come la pena di morte) o, peggio, si organizzi in proprio per praticare la vendetta privata nei confronti di chi delinque.

    Renzo Villa e il «metodo sperimentale clinico»

    Nel suo saggio sul cosiddetto «metodo sperimentale clinico» di Lombroso lo storico Renzo Villa scrive, tra l’altro, che “L’assoluta importanza attribuita alle anomalie fonda una sorta di clinica sperimentale che dovrebbe giustificare lo sguardo medico sul corpo del criminale e determinarne la diagnosi, ovvero un giudizio sulla pericolosità del soggetto. Stabilita la base organica si indicherà poi la terapia, in sostanza una variazione sui diversi e specifici luoghi di custodia, a cominciare dai manicomi criminali. E’ una visione medica della criminologia – il termine creato e utilizzato da Raffaele Garofalo – assai rozza, ove un ipotetico scarto rispetto a una norma fisiologica peraltro mai ben chiarita (ma la medicina non definisce la condizione di salute) diventa il tratto diagnostico differenziale per distinguere il normale dal criminale, l’alienato dal delinquente, il delinquente nato dal mattoide, e così via. L’obiettivo diagnostico e classificatorio produrrà una massa torrenziale di studi, perizie, interventi polemici che riusciranno ingannevoli per il lettore non tecnico, impressionato da fatti apparentemente sicuri e oggettivi, ovvero da segni patognomici certificati con assoluta presunzione, che testimonierebbero la differenza fisica fra l’uomo comune e il delinquente” (54). La mia opinione è che è vero che l’importanza attribuita alle anomalie (da parte di Lombroso) fu eccessiva e che quindi la sua visione medica fu abbastanza rozza. Ma bisognerebbe riconoscere che queste convinzioni derivavano dalla volontà di portare alle estreme conseguenze un principio giusto, quello cioè che generalmente il delinquente ha delle anomalie fisiche rispetto alle persone normali. Anche in questo caso non bisognerebbe accanirsi particolarmente contro Lombroso ma sforzarsi di salvaguardare il nucleo fondamentale delle sue intuizioni. Bisognerebbe, cioè, riconoscere che il fondatore dell’Antropologia criminale ha tentato pioneristicamente di dimostrare scientificamente, con strumenti ancora del tutto inadeguati, una verità riconosciuta tale da secoli da parte della cultura popolare (Il delinquente si riconosce dalla faccia) e in pratica utilizzata (spesso senza riconoscerla apertamente) da tutti coloro che hanno in qualche modo a che fare col mondo criminale (giudici, poliziotti, giornalisti, ecc.). Attraverso l’uso dei proverbi, delle favole e delle canzoni popolari Lombroso ha introdotto un parallelismo chiaramente anticipatore tra alta cultura e basa cultura, ponendole in pratica su un piano di pari dignità; la sua convinzione, a questo proposito, era che il tempo sostituisce la ragione nelle conoscenze popolari, in modo tale che “…le secolari, ripetute osservazioni tramandate colla tradizione, colle favole e colle canzoni, di padre in figlio, tennero luogo dei meditati calcoli del genio” (55). Cesare Lombroso ha citato alcuni dei proverbi relativi ai delinquenti in vari libri, tra cui anche nelle Lezioni di medicina legale. Ecco cosa scrive in questo suo volume: “Usasi infatti in Romagna il detto: Poca barba e niun colore sotto il ciel non vi ha peggiore. - E i Veneti dicono: Omo rosso e femmina barbuta da lontan xe megio la saluta. - Vardete de la donna che gha voce da omo (voce virile). - Dio me varda de l'orno senza barba. In piemontese v'è il detto: Faccia smorta pegg che scabbia. – E i Toscani ripetono: Uomo sbarbato e femmina barbuta da lontano li saluta. - Donna barbuta coi sassi la saluta. Guardati da chi ride e guarda in là e dagli occhi piccoli e molto mobili (T. Buoni, Tesoro di proverbi, 1604), ripetuto esattamente dal Veneto: Vardete da chi te parla e guarda in Ià, e, vardete da chi tiene i oci bassi e da chi camina a curti passi. - Vista rossa mal animo mostra. - Vista all'ingiù tristo e non più (Giusti). - El sguerzo xe maledetto per ogni verso. -- Riz e ross mai ghen foss (mai ce ne fossero). - Megio vender un campo e una cà che tor una dona dal naso levà. - Naso per insù un per casa e non più. -- Naso che guarda in testa è peggior che Ia tempesta. - E in Liguria si avverte: Guardati da chi ha le ciglia unite e il naso a due punte” (56).
    Renzo Villa sostiene anche che il campionario dei segni raccolti da Lombroso miravano ad individuare un individuo specifico, “….l’Homo criminalis: l’essere che agisce contro la legge perché non è in grado di accettarla, ed è spinto al delitto dal proprio impulso irresistibile. Quell’impeto già proposto nel codice penale napoleonico e individuato dai medici psichiatri come campo tecnico di loro appartenenza che rappresenta la naturalizzazione del delitto, e quindi l’antropologizzazione del male. Secondo questa rozza antropologia il delinquente è un selvaggio e nei selvaggi il delitto costituirebbe la regola e non l’eccezione” (57). Ma bisognerebbe riconoscere che Lombroso ha anticipato le ricerche neurobiologiche che oggi hanno provato che, almeno in parte, la delinquenza ha origini biologiche e che, ancora una volta, egli ha avuto intuizioni valide che, per i mezzi scientifici assolutamente insufficienti dell’epoca, non è riuscito a dimostrare adeguatamente. Si veda quanto ha scritto la criminologa Nicole Rafter in questo stesso volume: “Lombroso…anticipò le spiegazioni genetiche del crimine. Sebbene egli sia morto prima che il concetto di gene diventasse comune, la teoria lombrosiana della degenerazione, o di una tendenza ereditaria a diventare socialmente pericoloso, assomiglia molto alle teorie genetiche di oggi…” (58) e ancora: “…Lombroso anticipò alcuni aspetti dell’attuale ricerca neurobiologica sul comportamento umano. I neuroscienziati interpretano la criminalità come una malattia del cervello che può essere legata ad altre patologie, quali la depressione e la schizofrenia. Sotto questo aspetto, essi richiamano Lombroso e gli altri degenerazionisti dell’Ottocento, che intendevano anch’essi la criminalità come parte di una più ampia patologia che poteva manifestarsi con diverse malattie singole e in problemi sociali, come la follia, l’epilessia e l’etilismo” (59).
    Renzo Villa scrive ancora che il lavoro di Lombroso è “…il quotidiano lavoro del frenologo forense, dell’alienista appassionato a ogni caso di studio, anche dello straordinario raccoglitore di ogni reperto utile, dal suo Museo ai Palimsesti del carcere, l’opera sua più singolare in cui si limita a classificare, raccogliendo un campionario tanto prezioso quanto poco affidabile…” (60). Ma il campionario di materiali raccolti da Lombroso e descritti nei Palimsesti del carcere non deve essere considerato poco affidabile. Esso poteva rivelarsi utile come punto di partenza per un approfondimento della psicologia delinquenziale. La mia opinione è che le numerose scritte dei carcerati raccolte dai muri, dalle lettere, dai bordi dei libri, ecc., confrontate con varie scritte raccolte fuori dal carcere, potevano effettivamente consentire di individuare bene le differenze tra la psicologia dei carcerati e quella delle persone esterne al carcere. Si veda quanto scriveva lo stesso Lombroso alla fine di quasi trecento pagine di analisi e di descrizione approfondita di “palinsesti” assai vari per commentare il significato delle scritte raccolte: “Nel confronto tra i criminali e i liberi, per non dire degli onesti, se si vede la vanità, l’impazienza, l’ira, l’incostanza, l’invidia, il giuoco, l’ozio pressappoco al medesimo livello, vediamo poi raddoppiare nei criminali l’ironia,la vendetta, l’impazienza, l’astuzia e la libidine, l’odio, l’ingiustizia, eccetera, quintuplicare le sozzure: predominare, quasi isolate, la cupidigia, la ferocia, il cinismo, la superstizione, la diffidenza. Viceversa quasi tutte le buone tendenze sono in minoranza, per esempio, la previdenza appare 8 volte minore, la benevolenza 4 volte più scarsa. Il rimorso, l’amore, la rassegnazione…vanno alla metà. Ma non è tanto nella proporzione, quanto nell’intensità, che si direbbe perfino pazzesca, della ferocia, della vanità, e specialmente della vanità del delitto, che spicca l’enorme differenza tra il carcere e fuori” (61).
    Renzo Villa scrive, infine, a proposito del Museo di Antropologia criminale di Torino, che “Quel Museo, documentazione voluta ed esibita dell’ordine pensato per L’uomo delinquente, raccolta di reperti anatomici e manufatti, corpi di reato e documenti i più diversi, rievoca i relitti di un grande naufragio. Inutile volerne ricavare una documentazione certa della criminalità dell’Italia umbertina e giolittiana, inutile cercare le radici della scientificità di una disciplina. Come l’opera lombrosiana, è una sparpagliata collezione di narrazioni e immagini. È il brogliaccio di un romanzo non scritto, di un’analisi della società che nessuno riuscì a produrre…” (62). Ma chi l’ha detto che un museo deve rappresentare per forza l’immagine coerente e compiuta di un disegno presente nella mente del collezionista? Un museo moderno può accogliere anche materiali che agli occhi dei visitatori non corrispondono ad un progetto ben definito ma che, magari, sono stati raccolti da un collezionista che aveva nella mente un suo disegno particolare. E Lombroso era un collezionista particolare. Secondo la figlia Gina egli “…era un raccoglitore nato. Mentre camminava, mentre discorreva, in città, in campagna,nei tribunali, nei carceri, in viaggio, stava sempre osservando qualcosa che nessuno vedeva, raccogliendo così un cumulo di curiosità di cui lì per lì nessuno, e neanche egli stesso qualche volta, avrebbe saputo dire il valore, ma che si riannodavano nel suo incosciente a qualche studio passato o presente” (63).

    Patrizia Guarnieri e il metodo indiziario di Lombroso

    Nel suo saggio la psicologa Patrizia Guarnieri ha giustamente scritto che: "Un grande e irreversibile merito che credo si debba riconoscere a Lombroso per la scienza positiva è l'avere conferito dignità scientifica a oggetti di interesse comune. Non fu il solo ma in questo fu maestro. Il sapere alto e il profano sono rimasti a lungo tra loro distanti e addirittura incomunicabili nel guardare al mondo umano, non solo per il come ma anche sul cosa. La filosofia, come già la teologia, e anche il diritto si rivolgevano a enti e principi generali senza immischiarsi con il particolare, quando anche arrivavano a trattare del sentire e del pensare, della morale e dell'educazione, della verità e della giustizia che concerne il vivere degli individui. Finchè guardava esclusivamente alla natura, letta nel linguaggio matematico e dell'ordine galileiano, anche la scienza si teneva lontana dal senso comune. Ma la scienza positiva si è industriata a volgere lo sguardo proprio su quello che fino allora stava sotto gli occhi di tutti: dal sapere alto non visto, dal senso comune considerato ordinario o straordinario, al contrario, ogni qualvolta non corrisponda a quanto è familiare. Nel secondo Ottocento sono divenuti "oggetti" scientifici la donna, il bambino, il criminale, il malato di mente, che da sempre esistevano ma che soltanto allora sono venute costituendosi come le novità di altrettante nuove discipline cui andavano dedicate indagini, esperti e moderni istituti improntati alla scienza e alla medicina, anzichè alla carità e alla custodia.E immediatamente quei nuovi oggetti scientifici sono stati declinati al plurale, visti come singoli esponenti di un'enorme varietà. Lombroso ha messo gli individui al posto di entità: come sempre si dice, egli ha sostituito gli alienati all'alienazione, i vari tipi di folli alla follia, gli ammalati alla malattia, i delinquenti al crimine. Ed è stato tenace nell'aggiungere, caricandosene via via, nell'accumulare collezionando tutto quanto al suo sguardo diventava inevitabilmente un fatto da osservare, da indagare, da inscrivere nei nascenti specialismi delle scienze biologiche" (64).
    Va sottolineato quanto Patrizia Guarnieri scrive successivamente. Secondo lei "Nel suo famoso saggio Spie, Carlo Ginzburg non menziona Lombroso ma il suo nome potrebbe ben stare accanto a quelli di Giovanni Morelli, di Arthur Conan Doyle e di Sigmund Freud - ovviamente con le rispettive dovute differenze -, anche riguardo alla persistente contrapposizione tra razionalismo e irrazionalismo e ad altri connessi antagonismi. Una connessione diretta di Lombroso con il critico d'arte, che pubblicava negli stessi anni in cui usciva L'uomo delinquente, non è stata documentata. Risulta invece certo che il creatore di Sherlock Holmes conoscesse gli scritti lombrosiani, cui si ispirarono anche Bram Stoker per Dracula e altri scrittori dell'epoca. In quanto a Freud, egli citò Lombroso in due lettere private e mai nei suoi lavori. In tale disinteresse fu ricambiato. Tuttavia, fra tutti loro l'apparentamento di certi caratteristici modi di descrivere, osservare, analizzare è evidente; e l'insorgenza simultanea in luoghi diversi di uno stesso paradigma, di simili modelli e idee, di analoghe esigenze scientifiche - più volte sottolineata dagli storici delle scienze, di contro all'ormai demitizzato progresso scientifico lineare - ci autorizza a prendere in considerazione anche Lombroso, fra coloro che resero operante il paradigma indiziario nelle scienze umane di fine Ottocento" (65). Queste affermazioni sono state, praticamente, anticipate dal sottoscritto in un articolo scritto nel 1987. In questo articolo, dopo aver citato Spie, ho scritto che "Lombroso fu, notoriamente, il fondatore dell'Antropologia criminale ma, al di là degli studi sul deviante, ciò che egli, probabilmente, introdusse di maggiormente innovativo in campo scientifico fu il suo particolare utilizzo di un metodo di approccio alla conoscenza come il paradigma indiziario. Fu tale il suo apporto in questo senso da farlo sicuramente inserire tra i maggiori sostenitori ottecenteschi dell'utilità di questo paradigma e da farlo considerare, anzi, un precursore per l'ampiezza e l'originalità della sua ricerca" (66).
    Da sottolineare anche quanto affermato dopo da Patrizia Guarnieri: "In questo mi pare si possa indicare un altro aspetto importante del rapporto tra Lombroso e la scienza positiva. Come per gli altri tre autori, gli valsero la formazione medica, su cui si incardinava la smisurata varietà dei suoi interessi, e il modello della semeiotica clinica, che va a diagnosticare le malattie avnedone osservati sintomi apparentemente trascurabili. Esercitandosi sulle malattie della mente e poi sulle anomalie dei comportamenti cui riconduceva la criminalità psicologizzandola, ecco che a Lombroso la tecnica indiziaria divenne essenziale; tanto più che l'ambito in cui si vennero costituendo la sua psichiatria e poi la sua Antropologia criminale era quello non dei manicomi ma dei tribunali. Nei manicomi i giudizi erano già fatti; chi ci veniva inviato già arrivava con la certificazione sociale di alienato "per qualunque causa" (come sarebbe bastato alla Legge 36/1904), nonchè pericoloso o scandaloso. Agli psichiatri toccava solo darne conferma per consentire il ricovero, persino quando si ritrovavano davanti a pazienti non psichiatrici, e tuttavia quasi sempre bisognosi di assistenza. L'Antropologia criminale invece intendeva riconoscere patologie inaccessibili su individui che apparivano normali agli occhi della gente comune, ma anche dei giudici, e persino dei medici non specializzati: questa la battaglia e poi la promessa che gli esperti facevano. Fossero o meno seguaci di Lombroso (non lo era Morselli, che pure ne utilizzò le strategie peritali adatte al caso processuale dell'Ammazzabambini); abbia egli fondato una nuova disciplina o sia stata essa un risultato, con Lombroso si affermava l'analisi dei casi individuali per stabilire un'altrimenti inaccessibile patologia, attraverso sintomi e altri segni i più svariati, della faccia e del corpo, e non solo" (67).
    Importanti, infine, sono anche le seguenti affermazioni di Patrizia Guarnieri: "I tatuaggi, gli amuleti, la grafia, il linguaggio, i manufatti, per esempio, uscivano dai repertori della semeiotica medica, e ancora di più dal modello anatomo-patologico che esclusivamente viene attribuito a Lombroso, dimenticandone l'orientamento morfologico; così come non vi rientravano le storie di vita cui pure egli prestava una certa attenzione. Le sue osservazioni eccedevano sempre dai ristretti modelli del positivismo riduzionista e determinista; debordavano dalla programmata quantificazione per la quale è rimasto fin troppo noto. Interessavano comunque tracce e segni, indizi di qualunque tipo, cui attribuire significato. Quanto distingueva l'esperto era la capacità interpretativa di dare significato a dati che ai più sembravano irrilevanti, anche se il suo metodo poteva apparire «meccanico, grossolanamente positivistico» - lo si diceva di Lombroso quanto di Morelli - specie quando esso si appuntava su quanto era stato sempre concepito come un prodotto dello spirito (le opere d'arte, anche se false), o della mente e della morale (le azioni umane, anche se devianti)" (68). Anche questo discorso è stato parzialmente anticipato dal sottoscritto nel suddetto articolo all'interno del quale è stato affermato che "....dietro l'insistenza lombrosiana sull'importanza della misurazione antropometrica c'era, probabilmente, soprattutto la necessità di rendere accettabile, fornendo una base quantitativa di dati che fosse immediatamente verificabile, un utilizzo del paradigma indiziario che costituiva per lui un approccio globale alla conoscenza" (69) e che "....il merito principale di Lombroso è stato quello di aver utilizzato un approccio d tipo indiziario che era globale perchè lo portava a ricavare i segni per giungere a definire la psicologia del deviante da ogni fonte possibile, non solo dal corpo umano" (70).

    Michele Nani e il presunto razzismo di Lombroso

    Lo storico Michele Nani ha scritto nel suo saggio che “Uomo di scienza, come moltissimi suoi colleghi Lombroso condivise la cultura razziale diffusa nel secondo Ottocento. La disinvolta leggerezza con la quale si servì delle categorie razziologiche, in un caratteristico impasto di aspirazione alla precisione quantitativa, confusione epistemologica e uso strategico di qualsiasi «fatto» al fine di avvalorare il proprio sapere, non impedisce di collocare la sua esperienza entro quello sguardo razzista sulla diversità umana che pervadeva il senso comune degli europei dell’epoca. L’impianto teorico allestito da Lombroso e dalla sua scuola era programmaticamente aperto a slittamenti naturalistici, anche se il razzismo non esauriva quello spazio discorsivo: rifiuto del poligenismo e inclinazione evoluzionistica, a cavallo fra darwinismo e lamarckismo, attutivano i giudizi, nel nome della trasformabilità di tutte le razze. Tuttavia, ben al di là delle intenzioni dello stesso Lombroso e dell’economia meramente discorsiva dei suoi testi, molti di quegli argomenti si potevano prestare a usi razzisti: non vi conducevano necessariamente, ma a seconda del contesto specifico e degli agenti concreti che li mobilitavano” (71). Sarebbe stato importante precisare che il fatto di condividere la cultura razziale diffusa nel secondo Ottocento non comportava necessariamente che Lombroso fosse un razzista. Questo aspetto della personalità di Lombroso è stato chiarito molto bene dallo storico Luigi Bulferetti. Secondo lui “Lombroso non indulgeva alle illazioni né alle deduzioni razziste che potevano discendere dalle sue teorie razziali…[Egli] pur riconoscendo, da un punto di vista antropologico e storico, la superiorità delle razze bianche e, in esse, di quella americana, sul terreno etico-politico manterrà sempre un’ammirevole comprensione per le restanti civiltà, e i suoi giudizi al riguardo restano ancor oggi meritevoli di approfondimento sicchè si può concludere che il senso critico prevaleva nettamente in lui e dominava la sua visione antropologica” (72). Indipendentemente, quindi, dalla validità delle teorie razziali lombrosiane è importante sottolineare la liceità, per Lombroso, di esprimere le proprie teorie sulle differenze tra le razze (soprattutto se si considera il momento storico in cui esse sono state espresse) se contemporaneamente egli faceva emergere il suo disaccordo nei confronti di qualsiasi politica discriminatoria.

    Montaldo, Tappero, la metodologia e la politica carceraria lombrosiana

    I curatori del volume “Il Museo di Antropologia criminale «Cesare Lombroso»” (73) nel loro saggio introduttivo tratteggiano brevemente la biografia di Lombroso. Essi scrivono, tra l’altro, che “Lombroso fu il fondatore della criminologia come disciplina autonoma, anche se la sua costruzione fu più un assemblaggio di saperi diversi, in parte più antichi, in parte contemporanei, che il prodotto di un metodo originale. Questo limite scientifico fu però al tempo stesso un grande vantaggio, che gli permise di radunare orientamenti e tendenze che circolavano nella cultura europea, sintetizzandoli in un nuovo sapere che spostava il fuoco dell’indagine dal crimine al soggetto delinquente, elevato a categoria di studio per le scienze umane. Le contraddizioni che segnano l’intera sua opera sono almeno due: la pretesa di svolgere uno studio scientifico dell’uomo delinquente, applicando però una metodologia d’indagine del tutto approssimativa, e l’aver proposto un’interpretazione delle patologie sociali seguendo un’ideologia riformista e progressista – in cui egli credette profondamente – ma con conseguenze e applicazioni che prevedevano, per la difesa di quella società di cui si dichiarava membro leale, strumenti non meno repressivi e segreganti di quelli in vigore nell’Italia del suo tempo” (74). Ma io credo che già il fatto di assemblare saperi diversi in una disciplina nuova sia un titolo di merito. In riferimento al metodo va ripetuto che i metodi applicati da Lombroso furono, in pratica, due. Il metodo galileiano e il metodo indiziario. Nessuno dei due metodi era originale (il metodo indiziario risale a discipline antichissime come la semeiotica). Ma un merito di Lombroso fu quello di applicare in modo sistematico e continuo questi due metodi nelle sue ricerche. Non è vero, inoltre, che l’interpretazione lombrosiana delle patologie sociali aveva conseguenze, applicazioni e strumenti non meno repressivi e segregativi di quelli in vigore nell’Italia del suo tempo. Si veda quanto scritto sopra a proposito di quanto proposto da Lombroso per le carceri e i manicomi fin dall’inizio della propria carriera (75). Ma moderna, e sicuramente non repressiva, era anche la concezione lombrosiana della politica psichiatrica (76). A proposito della concezione di politica carceraria è stato giustamente scritto che alcuni dei meriti maggiori della scuola lombrosiana sono stati quelli di aver “modificato il concetto di pena come punizione, sostituendovi la misura terapeutica ed introducendo la intermediazione dei sostitutivi penali” (77) e di aver “introdotto il carattere indeterminato della misura detentiva, ancorata sia ad una tipologia di autore, sia alla valutazione della temibilità si che il massimo di sua durata non va ricercato nella legge né può essere indicato a priori dal giudice: principio questo che nato con Lombroso e con Ferri, ha sotteso la riforma della legislazione di tanti paesi costituendo uno dei momenti più innovativi e drammatici del pensiero giuridico in ambito penale” (78).

    Piero Bianucci, gli orrori e gli errori di Lombroso

    Il giornalista Piero Bianucci, nel suo saggio, all’inizio afferma che il Museo Lombroso “è un «museo degli errori». Errori di Lombroso scienziato ed errori dell’epoca in cui visse” (79). Secondo me il Museo Lombroso non può essere considerato solo un museo degli errori. La miriade di oggetti collezionati da Lombroso è servita a raggiungere una conoscenza molto migliore del fenomeno criminale in Italia tra fine Ottocento e inizio Novecento. Gi errori sicuramente ci sono stati ma questo non può cancellare il grosso contributo che Lombroso ha dato in molti campi del sapere. Si veda quanto è stato scritto da alcuni dei curatori del riallestimento del Museo: “Cesare Lombroso occupa un posto di rilievo nella storia di numerose branche del sapere, tra le quali si possono citare la medicina legale, l’antropologia, la neurologia, la psicologia, la psichiatria, la psicopatologia forense, la criminologia e la criminalistica, l’etnografia, le arti figurative, la letteratura, la linguistica, la semiologia, la sociologia, l’igiene, il diritto, la biometria, la statistica. Pur rilevando errori, superficialità e preconcetti nel metodo di osservazione, oltre che mancanza di organicità, e pur sottolineando la fallacia di molte sue affermazioni e teorie, il contributo di Lombroso allo sviluppo della conoscenza scientifica non può essere negato” (80). Ma anche quanto afferma Luisa Mangoni nel suo libro sui rapporti tra la cultura italiana e quella francese fra Otto e Novecento. Secondo lei la personalità e la scuola di Lombroso dominarono la cultura italiana dell’ultimo ventennio del XIX° secolo e fu indubitabile, seppure negletta, «la ricchezza dell’insegnamento di Lombroso» e «la larghezza di informazione internazionale, la vivace curiosità, la modernità, per certi aspetti, di una cerchia di intellettuali» che a lui aveva fatto capo (81).
    Secondo Bianucci, inoltre, il concetto di razza era “….dato per scontato dall’ebreo Lombroso e da tutti gli scienziati del suo tempo, sia pure con prese di posizione oscillanti a seconda dell’opportunità” e poi afferma subito dopo “Un errore, certo, il razzismo.” (82). In tal modo effettua un salto logico perché confonde, considerandole una cosa unica, la convinzione dell’esistenza di razze diverse con il razzismo. Per razzismo, invece, si dovrebbe intendere l’auspicio che si attuino politiche discriminatorie nei confronti di altri esseri umani ritenuti appartenenti a razze inferiori. Ma questo auspicio Lombroso non l’ha mai espresso.
    Ancora Bianucci afferma che “In qualche modo all’errato concetto di razza risale pure l’atteggiamento di Lombroso verso il genere femminile, dove ritroviamo le sue tipiche oscillazioni. Non stupiamoci, poi, se ancora oggi il maschilismo è così capillarmente diffuso nel nostro e in altri Paesi, dagli strati più umili della popolazione fino ai suoi vertici politici” (83). Mi sembra fuori luogo l’affermazione relativa al maschilismo ancora imperante. Si tratta di un salto logico e temporale notevole; il maschilismo di oggi non può certo essere attribuito a Lombroso. Del resto abbiamo già riportato citazioni lombrosiane che dimostrano che, pur ritenendo Lombroso le donne inferiori dal punto di vista intellettuale (un pregiudizio diffuso nella società e nella cultura della sua epoca) egli non ammetteva alcuna discriminazione nei confronti del genere femminile.
    Bianucci, inoltre, segnala “….l’errore più grave di tutti perché si annida nel metodo: la tendenza lombrosiana a rimuovere i dati scomodi selezionando solo quelli favorevoli alla propria tesi…” (84). Questa è un’accusa inedita, non formulata da altri critici (tra l’altro non viene spiegato perché quest’errore si anniderebbe nel metodo). Se questo fosse vero bisognerebbe ammettere che Lombroso era affetto da una sostanziale disonestà intellettuale mentre tutti gli studiosi, anche quelli maggiormente critici nei suoi confronti, hanno dovuto riconoscere la sua sostanziale onestà. Si veda quanto scritto, a questo proposito, da Mario Portigliatti Barbos: “Con indubbi gravi limiti (misurazioni scarsamente definite; deduzioni ingiustificate; gruppi di controllo inadeguati; esemplificazioni analogiche ed aneddotiche), ma mostrando sostanziale onestà nella sua ricerca del vero, Lombroso creò le basi di un sistema” (85).
    Dice Bianucci che “Il messaggio più profondo e attuale del «Museo Lombroso» sta forse appunto nel far riflettere il visitatore sulla «sicurezza» (presunta) delle acquisizioni scientifiche sia presso il grande pubblico (che deve fare i conti con le semplificazioni e talvolta i travisamenti della divulgazione) sia nell’ambito della comunità scientifica” (86). Ma in tal modo si fa prevalere una funzione “educativa” del Museo rispetto ad una funzione informativa che pure è presente nelle intenzioni dei curatori del riallestimento del Museo (87). Ed inoltre si tratta di un tipo particolare di funzione educativa dato che essa è stata intesa anche in modo diverso dai curatori. Secondo loro, infatti: “Un’altra funzione di educazione museale consiste nella identificazione e trattazione del fil rouge degli interessi scientifici di Lombroso, cioè della curiosità che guidò tutta la sua attività di indagine e che generò le collezioni museali” (88). Secondo me il messaggio più profondo del Museo Lombroso è presentare le scelte e le opinioni di uno scienziato del diciannovesimo secolo con i suoi meriti e le sue contraddizioni.
    Dice ancora Bianucci: “Due aggettivi gli scienziati italiani hanno dato al mondo: galileiano e lombrosiano. Derivano da personalità incomparabili e identificano paradigmi altrettanto disuguali. «Galileiano» suggerisce la paternità nobile del metodo scientifico tuttora riconosciuto come la Carta costituzionale della Ragione. Lombroso rimanda a una caricatura della scienza positivista, oppure, in una prospettiva più angusta, si associa alla fisiognomica, la pseudoscienza che vorrebbe trarre dall’aspetto fisico connotati psicologici e morali” (89). Dire che il termine “lombrosiano” rimanda ad una caricatura della scienza positivista mi sembra veramente eccessivo. E’ stato giustamente scritto che “….l’apporto della scuola criminologica italiana appare coerente e largamente correlato con lo stato delle conoscenze del tempo, sì da collocarsi autonomamente all’incrocio di varie discipline, e da portare un contributo rilevante nella storia del positivismo italiano, soprattutto sotto forma di una semeiologia, intesa ad identificare il deviante prima di sottoporlo al controllo sociale ed istituzionale. E’ un apporto che si propone come scientifico, dal momento che parte da precise premesse biomediche e presenta l’uomo non solo, e non tanto, come prodotto naturale legato intimamente agli altri organismi che lo precedono nella scala evolutiva ma anche come prodotto storico, suscettibile cioè di modellamento ad opera dell’ambiente da lui stesso creato” (90). Dire anche che l’aggettivo “lombrosiano” si associa ad una pseudoscienza come la fisiognomica mi sembra per lo meno riduttivo. Il problema è che la fisiognomica può sicuramente essere considerata una pseudoscienza nel senso che le conoscenze raggiunte attraverso il suo utilizzo non sono scientificamente verificabili, almeno se ci si mantiene all’interno dei canoni classici della scientificità. Ma se si prova ad andare oltre questa visione della scientificità si può scoprire che la fisiognomica, pur non potendo essere considerata una scienza nel vero senso del termine, ha dato contributi importanti alla conoscenza. Si veda ciò che scrive lo storico Carlo Ginzburg a proposito della fisiognomica e del sapere indiziario nel suo famoso saggio Spie. Radici di un paradigma indiziario: “L’antica fisiognomica era imperniata sulla firāsa: nozione complessa, che designava in generale la capacità di passare in maniera immediata dal noto all’ignoto, sulla base di indizi. Il termine, tratto dal vocabolario dei sufi, veniva usato per designare sia le intuizioni mistiche, sia forme di penetrazione e di sagacia come quelle attribuite ai figli del re di Serendippo. In questa seconda accezione la firāsa non è altro che l’organo del sapere indiziario. Questa «intuizione bassa» è radicata nei sensi (pur scavalcandoli) – e in quanto tale non ha nulla a che vedere con l’intuizione sovrasensibile dei vari irrazionalismi otto e novecenteschi. E’ diffusa in tutto il mondo, senza limiti geografici, storici, etnici, sessuali o di classe – e quindi è lontanissima da ogni forma di conoscenza superiore, privilegio di pochi eletti” (91).

    Marc Renneville e la scoperta dell’atavismo criminale

    Lo storico Marc Renneville nel suo saggio scrive: “Lo scenario della scoperta dell’atavismo criminale crea così, a suo modo, una «rottura epistemologica» nel sapere sui criminali. Ponendo il fondamento del suo sapere sul solo terreno dell’osservazione della natura, Lombroso intende costruire un nuovo ordine nel discorso sui criminali. Questo aspetto è essenziale, perché è qui che si svolge la dimensione propriamente mitica del racconto della scoperta lombrosiana. Infatti, se si ammette con Barthes che il mito non si definisce «ni par son object, ni par sa matière, car n’importe quelle matière peut être dotée arbitrairement de signification», ma che si distingue per la sua funzione, che è quella di «fonder une intention historique en nature, une contingence en éternité», allora il racconto lombrosiano sviluppa, in questa proposta di una pura osservazione libera tra lo studioso e l’oggetto, una dimensione mitica. Considerare l’osservazione del fatto oggettivo come fondamento della conoscenza innalza infatti il sapere scientifico allo statuto del discorso di verità, neutro, imparziale e trascendente la società. Viene così posta in essere una totale indipendenza dello scientifico rispetto alla società nella quale esso viene enunciato. Questo non è il luogo per discutere della pretesa del discorso scientifico alla conoscenza del vero né di contestarla ricordando punto per punto quante contraddizioni Lombroso accumulò nella sua raccolta di dati numerici, spesso eterogenei. Ma occorre notare che il racconto di Lombroso è in un certo senso produttore del mito, o, per essere più precisi, riproduttore di una certa visione della scienza che ai giorni nostri non è totalmente scomparsa” (92).
    E’ opportuno ribadire la validità delle affermazioni, già riportate, di Mario Portigliatti Barbos (93). Il limite di Lombroso non è stato quello di “considerare l’osservazione del fatto oggettivo come fondamento della conoscenza” ma quello di non aver mantenuto pienamente fede al suo programma di ricerca perché nella sua carriera scientifica non si è sempre mantenuto fedele a quanto si è ripromesso, nel senso che ha fatto un uso eccessivo dell’intuizione e della sbrigativa deduzione di scoperte non adeguatamente supportate da riscontri oggettivi
    Marc Renneville ha scritto ancora che: “Il racconto di Lombroso è innegabilmente «realista» per la sua epoca, ma il modello di razionalità scientifica al quale si conforma è ormai rifiutato dagli storici. Nessuno pensa più che lo sviluppo della scienza sia basato essenzialmente sull’induzione. Preso alla lettera, quindi, questo testo non ci insegna nulla sulle condizioni di possibilità della scoperta né sulla costruzione e la diffusione della teoria dell’atavismo criminale, che esso sembra aver fondato. La scoperta lombrosiana non procede tanto dalla messa in luce di un rapporto di causalità prima sconosciuto tra l’attualizzazione di un postulato che sottiene tutto il programma dell’Antropologia criminale, e che presuppone un legame tra la biologia dell’individuo e i suoi atti. Il ragionamento che condusse gli antropologi a lavorare su questo postulato fu enunciato molto chiaramente dai contemporanei di Lombroso che difesero la «teoria biologica» della criminalità….Il presupposto conoscitivo messo in opera da Lombroso fu costituito dalla ricerca di un rapporto di causalità tra l’organizzazione degli individui e la loro attitudine di fronte alla legge. Un tale presupposto è rintracciabile in Francia fin all’inizio del XIX secolo con la frenologia di Gall e si può seguirne lo sviluppo sino alle ricerche contemporanee di certi genetisti e neurobiologi. Lombroso ha dunque strutturato la sua concezione dell’Antropologia criminale intorno a un presupposto di cui egli non era né l’artefice né l’estremo difensore. Considerata a questo livello, la scoperta di Lombroso diventa molto meno interessante per se stessa, che non per questo presupposto che essa rivela. L’orizzonte infuocato descritto da Lombroso era infatti un «orizzonte di attesa» che spiega in parte la formidabile diffusione della sua teoria” (94). Ma non è vero che Lombroso pensava che lo sviluppo della scienza fosse basato essenzialmente sull’induzione. Lo stesso Renneville nelle pagine precedenti ha scritto cose diverse di Lombroso: “Lombroso, per calcolo strategico o per conoscenza scientifica, non si descriveva sotto i tratti di un induzionista ingenuo. Se egli rifiutava esplicitamente ogni concezione deduttiva del processo scientifico, riconosceva però che l’induzione da sola non bastava a creare una teoria soddisfacente. Per Lombroso….la scienza s’inseriva in un processo storico che procedeva attraverso l’accumulazione delle osservazioni e la modificazione delle ipotesi iniziali” (95). Lombroso pensava, quindi, che le intuizioni erano il momento iniziale e imprescindibile della ricerca scientifica. La sua particolarità era il calcare molto, forse troppo, la mano sull’importanza dell’intuizione. Ma egli riconosceva che esse non bastavano perché dovevano essere supportate da osservazioni e misurazioni adeguate, altrimenti non avrebbero avuto alcun valore. Mi sembra che questo modello di ricerca, se rigorosamente perseguito, possa essere sostanzialmente accettato perché rientra pienamente nei canoni della razionalità oggi considerati validi dalla comunità scientifica.

    Pierpaolo Leschiutta e i palimsesti del carcere

    L’antropologo Pierpaolo Leschiutta nel suo saggio descrive il contenuto dei Palimsesti del carcere, una delle opere più importanti e originali di Lombroso. Egli scrive quanto segue: “Due campagne di raccolta successive a distanza di quattro anni una dall’altra, tra il 1880 e il 1885, in tre carceri piemontesi la prima, nel solo carcere torinese la seconda, permettono a Lombroso di raccogliere 809 scritti di carcerati, 299 incisi o scritti sulle pareti e 510 sui margini bianchi di libri delle biblioteche carcerarie. Una mole documentaria consistente, che Lombroso raggruppa secondo la sua interpretazione del messaggio esplicito e confronta con scritti e graffiti raccolti all’esterno delle carceri, sui muri delle case, sulle pareti delle pubbliche latrine [566] e sui libri delle biblioteche di Torino, Bologna e Roma [663]. Motti, liriche, poesie, satire, imprecazioni, saluti e comunicazioni, minacce e sciarade, rebus e commenti al libro sul quale si scrive, idee politiche e frasi oscene. Scritti che vogliono comunicare la propria storia e la propria presenza nel carcere o indicano ai compagni come comportarsi nelle udienze del tribunale; scritti sulla religione e sulla morale, ma anche sui desideri e sui ricordi, sulle speranze e sui progetti una volta fuori dalla prigione. Un materiale difforme, incoercibile, come riconosce lo stesso Lombroso, che egualmente lo utilizza riducendo lo scritto a oggetto e dato statistico, forzandolo nella direzione della propria tesi” (96).
    Secondo me il termine “incoercibile” usato da Lombroso non vuol dire che il materiale raccolto non poteva consentire una lettura della psicologia del delinquente ma solo che esso era di provenienza molto eterogenea. Il campione di scritti raccolti era, comunque, numericamente e qualitativamente significativo. Sarebbe stato troppo contraddittorio dichiarare praticamente inutilizzabili i dati raccolti e poi utilizzarli comunque. Lombroso era sicuramente convinto dell’utilità di questi scritti: “….a me venne in mente che questi veri palimsesti del carcere….potesse[ro] fornirci preziose indicazioni sulla tempra vera, psicologica, di questa nuova, infelicissima razza, che vive accanto a noi senza che noi ci accorgiamo punto dei caratteri che la differenziano” (97).
    Scrive ancora Leschiutta: “Le incisioni sulle terracotte e le scritte sulle pareti delle celle appaiono esemplificare i primi rudimentali sforzi di avvicinamento alla forma scritta della lingua italiana da parte di individui dialettofoni. Le frasi sono composte da parole in dialetto, intramezzate da parole italiane la cui ortografia risente dell’articolazione della pronuncia dialettale che le scandisce….Proprio in questo è il loro pregio e la loro novità rispetto sia alle raccolte dei folcloristi sia dei dialettologi. I Palimsesti del carcere di Lombroso ci presentano in nuce alcuni tratti di quel lento e laborioso passaggio tra consuetudine orale e necessità della scrittura, permettendoci di sondare un momento di straordinaria rilevanza culturale: l’ingresso nella scrittura, nel «dominio di riserva del prete e del re», di chi fino ad allora ne era stato escluso” (98). Rimango convinto che il motivo principale dell’importanza dei Palimsesti sia la possibilità che essi offrono di indagare sulla psicologia dei delinquenti. Ma seppure avesse ragione Leschiutta nel considerare di maggior rilievo la possibilità che essi offrono di monitorare il passaggio dalla “consuetudine orale alla necessità della scrittura” da parte di persone detenute si tratterebbe comunque di una operazione di grande valore culturale.

    Renzo Villa e la criminologia

    Lo storico Renzo Villa, a proposito della criminologia (considerata in pratica una disciplina di diretta derivazione lombrosiana) scrive quanto segue: “Attraverso i corpi di reato l’azione si manifesta come occasione e mezzo: così che la criminologia si interessa a loro tanto più, quanto più si impegna a verificare se l’azione criminosa sia il risultato di una scelta responsabile e premeditata o dell’agire d’impulso, sia un movimento involontario o un’irruzione psichica, e se la motivazione del reo provenga dalla sua disposizione antropologica, dai suoi impulsi mentali, o dalla sua condizione sociale. E infatti raccontando delitti e delinquenti la criminologia ha costruito un grande romanzo consolatorio, in cui la violazione della legge ha sempre una spiegazione che dovrebbe, o potrebbe, chiarire la finale irresponsabilità del reo” (99).
    La mia convinzione è che il discorso di Villa sulla criminologia sia troppo semplicistico. La problematica è molto più complessa. Sembra però fondata la critica alla scuola lombrosiana che emerge dalle parole di Villa, quella cioè di aver posto eccessivamente l’accento si fattori biologici del delitto. Ad essa si può solo rispondere che, probabilmente, Lombroso ha dato meno importanza del dovuto ai fattori non biologici perché era convinto che la loro evidenza rendesse non indispensabile un’insistenza sulle caratteristiche della loro operatività (100) ma anche perché gli premeva che i fattori biologici, fino ad allora eccessivamente trascurati, fossero finalmente tenuti nella giusta considerazione. Va, comunque, criticata soprattutto la sottovalutazione da lui operata della scelta individuale come causa del delitto. Evidentemente la necessità di contestare la teoria del libero arbitrio nelle scelte morali, una teoria che ha predominato per molti secoli anche in campo giudiziario, lo ha portato a porre l’accento sulle cause del delitto non derivanti da scelte individuali. In tal modo egli ha contribuito a favorire una tendenza alla deresponsabilizzazione dell’individuo peccando dell’eccesso opposto rispetto alla scuola classica, la cui tendenza era quella di deresponsabilizzare la società (101).

    Pierpaolo Leschiutta, Lombroso e i tatuaggi

    L’antropologo Pierpaolo Leschiutta, nel saggio “Lombroso e i tatuaggi”, scrive: “La molteplicità dei tatuaggi lo interessa come dato statistico, nel mito dell’oggettività del dato numerico le singole icone saranno suddivise nelle categorie dei tatuaggi religiosi, d’amore, osceni, simbolici, ecc. modalità tanto vaghe e generiche ed estranee all’oggetto «tatuaggio» da non riuscire a fornire una griglia interpretativa di una qualche utilità. Non il tatuaggio ma il Tatuato interessa Lombroso, non l’analisi del segno ma l’individuazione delle «ragioni per cui si mantenne nelle classi basse e più nei criminali un uso sì poco vantaggioso, e alle volte di tanto danno» (102). Ed ecco Lombroso mettere a fuoco le presunte «cause» che indurrebbero a tatuarsi: sono a) di natura e provenienza religiosa; b) l’imitazione; c) lo spirito di vendetta; d) l’ozio e l’inattività; e) la vanità, f) lo spirito di corpo; g) la funzione mnemonica; h) le passioni erotiche (103). Tassonomia che vuole selezionare i comportamenti ascrivendone le cause a motivi di ordine psicologico, ma che appare più che altro un decalogo dei disvalori dominanti nella società italiana di fine secolo. Categorie troppo fragili per riuscire a contenere la complessità di una pratica culturale come quella del tatuaggio che non è riducibile alla sola dimensione dell’individuale e dello psicologico. La complessità di alcune forme di religiosità popolare non può essere ridotta a sola superstizione o a comportamenti ipocriti utilizzati per coprire impulsi cattivi e malvagi. Il tatuaggio, dove appare indicata la volontà di vendicarsi di chi ha tradito o ha fatto la spia, non è solo il sintomo di un irrefrenabile impulso personale: è un comportamento obbligato dal «codice dell’onore»; l’imitazione è anche processo di circolazione culturale che si attiva solo in determinate condizioni; lo spirito di corpo rimanda alla solidarietà di gruppo e alle norme, valori, credenze e regole che danno senso all’appartenervi” (104).
    Non sono d’accordo con Leschiutta; i tatuaggi possono essere utili per capire la personalità del tatuato. Non è vero che le cause dei tatuaggi sono più che altro un decalogo dei disvalori dominanti nella società italiana di fine secolo; non si possono attribuire a tutte le classi sociali lo spirito di vendetta, l’ozio e l’inattività, la vanità e le passioni erotiche. Queste sono motivazioni psicologiche che sembrano specifiche delle categorie sociali alle quali appartengono, di solito, i delinquenti. Non si capisce, poi, come Leschiutta possa accusare Lombroso di avere considerato i tatuaggi solo come sintomi di irrefrenabili impulsi personali e non anche a comportamenti obbligati da un codice d’onore. Inserendo tra le cause che inducono a tatuarsi anche l’imitazione e lo spirito di corpo Lombroso ha sicuramente tenuto conto del codice d’onore che, in certi casi, obbliga a tenere determinati comportamenti.
    Scrive ancora Leschiutta: “Anche i criminali, prima o durante il periodo trascorso in carcere, si tatuano immagini religiose, ma quando l’immagine della Madonna di Loreto o la data del pellegrinaggio al santuario è impressa sul corpo di un carcerato, questa è, secondo Lombroso, non atto di devozione e di fede, ma forma di scongiuro superstizioso, retaggio di pratiche apotropaiche, riproposizione di comportamenti tipici delle popolazioni «selvagge». L’essere carcerato rende criminali, agli occhi di Lombroso, anche gli atti del passato, ogni momento della storia individuale del detenuto, anche di molto precedente la condanna, diviene indicatrice di una criminalità già esistente ma non ancora espressa. Tatuaggi religiosi sono: il Sacramento con o senza raggi; Cristo legato alla colonna o in Croce; i simboli della Passione; la Madonna di Loreto; W. G. C. (viva Gesù Cristo); Croci con raggi; le parole «Santissimo Sacramento»; l’Arcangelo Gabriele ecc. Sono in larga parte le immagini raffigurate sulle «marche» dei tatuatori che operavano presso il Santuario di Loreto, le stesse ancora oggi visibili nella collezione del Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari di Roma” (103). Secondo Leschiutta “Lombroso non nota che questi simboli religiosi appaiono sempre distanziati dagli altri segni impressi sul corpo, isolati in una «zona di rispetto». Al più, nella zona del corpo dove è tatuato uno di questi simboli, è possibile trovare il disegno di una nave, di un fiore, una data o un cuore trafitto, ma non mi è capitato di trovare nella pur vasta documentazione trasmessa dai ricercatori lombrosiani, i simboli religiosi accostati a figure di donne nude, a frasi oscene o di vendetta. Isolando i singoli tatuaggi ed estrapolandoli dal contesto per trattarli come dato statistico, Lombroso non coglie le reciproche relazioni tra i segni e la loro disposizione” (105).
    Leschiutta accusa Lombroso di non considerare i tatuaggi di tipo religioso presenti sul corpo del delinquente come sintomi di religiosità ma forme di scongiuro superstizioso, retaggio di pratiche apotropaiche, riproposizione di comportamenti tipici delle popolazioni «selvagge». Probabilmente Lombroso ha esagerato nell’andare troppo indietro nel tempo nell’interpretazione di questi tatuaggi. Ma si tratta in ogni caso di segni “sui generis”, che sono nel migliore dei casi gli indizi di una religiosità molto rozza e rudimentale.
    Scrive ancora Leschiutta: “L’imitazione, come principio esplicativo dei fatti sociali, è una teoria che circolava largamente nel linguaggio antropologico e sociologico di quegli anni e che Lombroso utilizzerà in modo riduttivo, riducendola a mera riproduzione passiva e individuale di modelli di comportamenti. Sarà una delle poche parti de L’uomo delinquente a non essere modificata nelle successive edizioni del libro, nonostante l’ampio dibattito che seguì la pubblicazione del volume di Gabriel Tarde, Les Lois de l’imitation e i successivi lavori del lombrosiano Scipio Sighele e di Gustave Le Bon sulla psicologia delle folle e su La folla delinquente. Accettare la tesi di Gabriel Tarde che individuava l’essenza del sociale nel fatto comunicativo e la riproduzione per imitazione come cinghia di trasmissione dei comportamenti collettivi, avrebbe comportato un ripensamento dell’intero quadro teorico. La genesi della criminalità avrebbe dovuto essere ricercata nel sociale e non nella natura dell’individuo criminale” (107).
    E’ strano che Leschiutta accusi Lombroso di aver utilizzato in modo riduttivo l’imitazione come principio esplicativo di fatti sociali perché ciò “avrebbe comportato un ripensamento dell’intero quadro teorico” perché “La genesi della criminalità avrebbe dovuto essere ricercata nel sociale e non nella natura dell’uomo delinquente”. Ma Lombroso, nell’indicare le cause dei tatuaggi dei delinquenti, ha individuato sia cause di natura psicologica sia cause di natura sociale. Evidentemente, quindi, egli considerava attivi tutti e due i tipi di cause nel comportamento dell’uomo delinquente. Questo, in effetti, è lo stesso procedimento seguito nell’individuare le cause della delinquenza fin dalla prima edizione de L’uomo delinquente.
    Scrive infine Leschiutta: “In sostanza, Lombroso ripropone continuamente gli elementi caratterizzanti il proprio quadro teorico, ma anche il suo stereotipo, sia del criminale che del selvaggio. Il discorso diviene in questo modo circolare e tautologico, autoesplicativo, e pare non consentire una lettura dei fatti alternativa, se non a rischio di porre sotto accusa tutta l’intelaiatura teorica che ne è alla base. Lo sforzo interpretativo diviene tutto interno al discorso, la verifica limitata a un aumento spropositato del materiale raccolto, una ricerca di compensazione, attraverso la quantità dei dati accumulati, alla sostanziale debolezza teorica dell’analisi. L’unico approfondimento è nella classificazione del materiale raccolto. Si cercano e si trovano categorie in cui porre segni ritenuti omogenei, così come avviene nelle analisi dei gerghi, dei palinsesti, dei prodotti artistici. Ma l’elemento unificante, la sintesi, l’omogeneità del significato nella variabilità dei significanti, non inducono Lombroso alla ricerca delle ragioni storiche e culturali che possono averli generati. L’unificazione e la sintesi è nell’atavismo, nel riemergere nel criminale reo-nato delle caratteristiche e dei comportamenti «normali» nei selvaggi e nei nostri antenati prima dell’avvento della civiltà” (108). E ancora: “Il tatuaggio turba, incuriosisce, infastidisce, pone problemi sulla liceità di un uso del corpo irrispettoso della sua sacralità. L’immaginario della borghesia ne è affascinato e scandalizzato. Lombroso ne coglie la potenzialità evocativa e ne fa oggetto di studio. Solo valutando questo incontro può comprendersi le ragioni che hanno portato, nei trenta anni a cavallo tra il XIX e il XX secolo, a scrivere centinaia di pagine sui tatuaggi, travestendo un luogo dell’immaginario in un oggetto di studio che si voleva scientifico” (109).
    A me sembra, invece, che si possa sostanzialmente condividere l’analisi che Lombroso faceva dei tatuaggi dei delinquenti. Non ci sono ragioni storiche e sociali che motivano le caratteristiche che i tatuaggi assumevano nei delinquenti. Ci sono solo ragioni psicologiche. E Lombroso, attraverso i tatuaggi e altri segni presenti sul corpo dei delinquenti, ha fatto una accurato studio psicologico degli stessi. Il corpo dei delinquenti, quindi, non era un luogo dell’immaginario ma un luogo concreto con segni concreti che, ad un’attenta lettura, potevano rivelare molte informazioni utili sulla psicologia di queste persone.

    NOTE
    1) Questo articolo vuole essere una rassegna critica dei volumi Cesare Lombroso cento anni dopo e Il Museo di Antropologia criminale «Cesare Lombroso» (pubblicati dalla Utet nel 2009) e ambedue curati da Silvano Montaldo e Paolo Tappero. L’obiettivo è quello di evidenziare e di motivare i punti di accordo e di disaccordo con alcuni autori citati e con alcuni saggi pubblicati all’interno dei volumi (molti altri saggi hanno riportato considerazioni che non hanno suscitato il mio interesse e pertanto il confronto con quanto sostenuto dagli autori mi è parso meno urgente) . La mia convinzione è che, pur tenendo conto degli innumerevoli errori commessi da Lombroso, ancora oggi la sua figura non viene considerata nella giusta luce e che quindi ci sono importanti aspetti della sua opera che vanno illuminati meglio. Lombroso, cioè, sicuramente ha sbagliato ad attuare procedure di ricerca non sempre corrette dal punto di vista scientifico e ad avere alcune convinzioni condannabili (a credere ad esempio ad una differenza tra le razze e ad una inferiorità della donna rispetto all’uomo, a considerare gli omosessuali come degenerati, ecc.). Ma nel valutare gli errori di Lombroso vanno considerati sia il clima culturale dell’epoca in cui visse sia la sua sostanziale buona fede.
    2) GEORGE. L. MOSSE: Il razzismo in Europa. Dalle origini all’Olocausto; Laterza, Roma-Bari, 2003 (3a ed.), p. 94, (ed. or. 1978).
    3) SILVANO MONTALDO: Cento anni dopo: il punto della situazione, in SILVANO MONTALDO – PAOLO TAPPERO: Cesare Lombroso cento anni dopo; Utet, Torino, 2009, p. X.
    4) Vedi FRANCO PELELLA: Riabilitare Lombroso. Per la riapertura di un dibattito, in “Il Risorgimento”, anno XLI, n. 3, ottobre 1989, p. 291.
    5) Cfr. DANIEL PICK: Volti della degenerazione. Una sindrome europea 1848-1918; La Nuova Italia Editrice, Scandicci (Firenze), 1999, pp. 198, 202 (ed. or. 1989).
    6) MARY GIBSON: Nati per il crimine. Cesare Lombroso e le origini della criminologia biologica; Bruno Mondadori, Milano, 2004 (ed. or. 2002).
    7) MARY GIBSON, cit., p. 357.
    8) SILVANO MONTALDO, cit., p. XI.
    9) CESARE LOMBROSO – GUGLIELMO FERRERO: La donna delinquente, la prostituta e la donna normale; Roux, Torino, 1893, p. IX.
    10) CESARE LOMBROSO – GUGLIELMO FERRERO, cit., p. X.
    11) GRAZIELLA MAZZOLI: La sottocultura nella città: rassegna bibliografica, in AA. VV.: Aree urbane, violenza e prevenzione del crimine; Franco Angeli, Milano, 1979, p. 131.
    12) CESARE LOMBROSO: L’uomo delinquente studiato in rapporto all’antropologia, alla medicina legale e alle discipline carcerarie; Hoepli, Milano, 1876, 1a ed., pp. 215- 216.
    13) GIACOMO CANEPA: Criminologia e antropologia criminale. Origini e sviluppo storico, in UMBERTO LEVRA (a cura di): La scienza e la colpa. Crimini criminali criminologi: un volto dell’Ottocento; Electa, Milano, 1985, p. 91.
    14) SILVANO MONTALDO, cit., pp. XI-XII.
    15) Cfr. LUISA MANGONI: Una crisi fine secolo. La cultura italiana e la Francia fra Otto e Novecento; Einaudi, Torino, 1985.
    16) SILVANO MONTALDO, cit., p. XII.
    17) Cfr. DELIA FRIGESSI: Cesare Lombroso; Einaudi, Torino, 2003.
    18) DELIA FRIGESSI: Cesare Lombroso tra medicina e società, in SILVANO MONTALDO – PAOLO TAPPERO, cit., p. 5.
    19) GEORGE W. KIRCHWEY: Criminology, in Encyclopaedia Britannica, 1946, vol. VI, p. 720.
    20) DANIELE VELO DALBRENTA: Tesi e malintesi de L’uomo delinquente. Un punto di vista filosofico-giuridico in SILVANO MONTALDO – PAOLO TAPPERO, cit., p. 21.
    21) DANIELE VELO DALBRENTA, cit., p. 21.
    22) Per una storia del metodo indiziario si veda il famoso saggio di CARLO GINZBURG: Spie. Radici di un paradigma indiziario, in AA. VV.: Crisi della ragione; Einaudi, Torino, 1979.
    23) DANIELE VELO DALBRENTA, cit., p. 22.
    24) DANIELE VELO DALBRENTA, cit., p. 22.
    25) Si veda FRANCO PELELLA: Cesare Lombroso: un precursore nell’utilizzo del paradigma indiziario, “Nuovi Argomenti”, n. 22, 1987.
    26) CESARE LOMBROSO: Pensieri e meteore; Dumolard, Milano, 1878, p. X.
    27) CARLO GINZBURG, cit., p. 71.
    28) CARLO GINZBURG, cit., p. 92.
    29) LUIGI BULFERETTI: Cesare Lombroso; UTET, Torino, 1975, p. XVI.
    30) Cfr. CESARE LOMBROSO: Lezioni di medicina legale; Fratelli Bocca, Torino, 1886, p. 33.
    31) CESARE LOMBROSO: Pensieri e meteore; Dumolard, Milano, 1878, p. 88.
    32) CESARE LOMBROSO: L’uomo delinquente, cit., p. 108.
    33) CESARE LOMBROSO: L’uomo di genio, Fratelli Bocca, Torino, 1894, 6a ed., pp. 646- 647.
    34) L’affermazione è stata fatta negli anni ’80 dal professor Mario Portigliatti Barbos, allora docente di Medicina Legale presso l’Università di Torino, ed è stata riportata nell’articolo di RENATO RIZZO: Ecco l’identikit del criminale disegnato nel secolo scorso; La Stampa, 27/12/1984.
    35) GIACOMO CANEPA, cit., p. 91.
    36) DANIELE VELO DALBRENTA, cit., pp. 22-23.
    37) Le opinioni relative ad Achille De Giovanni sono state espresse dal professor Giovanni Federspil nel saggio Il ruolo del costituzionalismo nell'evoluzione del pensiero medico, in FILIPPO MARIA FERRO (a cura di): Passioni della mente e della storia, Vita e Pensiero, Milano, 1989, p. 555-565.
    38) Si veda quanto sostenuto dal professor Mario Portigliatti Barbos e riportato nell’articolo di RENATO RIZZO: Ecco l’identikit del criminale disegnato nel secolo scorso, cit.
    39) DANIELE VELO DALBRENTA, cit., pp. 36-37.
    40) VILFREDO PARETO: L’uomo delinquente di Cesare Lombroso, in “Giornale degli Economisti”, novembre 1893, p. 454. Il corsivo è nostro.
    41) GIUSEPPE ANTONINI: I precursori di C. Lombroso; Fratelli Bocca, Torino, 1900.
    42) DANIELE VELO DALBRENTA, cit., p. 41.
    43) DANIELE VELO DALBRENTA, cit., pp. 41 – 42
    44) ROBERTO BENEDUCE: La necessità dell’ombra. Note per un’antropologia della devianza in SILVANO MONTALDO – PAOLO TAPPERO, cit., p. 66.
    45) ROBERTO BENEDUCE, cit., p. 69.
    46) ROBERTO BENEDUCE, cit., p. 70.
    47) Cfr. CESARE LOMBROSO: Sull’incremento del delitto in Italia; Fratelli Bocca, Torino, 1879, pp. 4-5.
    48) ROBERTO BENEDUCE, cit., p. 72.
    49) ROBERTO BENEDUCE, cit., p. 73.
    50) MICHEL FOUCAULT: Sorvegliare e punire. Nascita della prigione; Einaudi, Torino, 1976, p. 235 (ed. or. 1975).
    51) ROBERTO BENEDUCE, cit., p. 75.
    52) ROBERTO BENEDUCE, cit., p. 77.
    53) ROBERTO BENEDUCE, cit., p. 79-80.
    54) RENZO VILLA: Il «metodo sperimentale clinico»: Cesare Lombroso scienziato, e romanziere in SILVANO MONTALDO – PAOLO TAPPERO, cit., pp. 129-130.
    55) CESARE LOMBROSO: Pensieri e meteore; Dumolard, Milano, 1878, p. 88.
    56) CESARE LOMBROSO: Lezioni di medicina legale; 2a ed., Fratelli Bocca Editori, Torino, 1900, p. 54.
    57) RENZO VILLA, cit., p. 132.
    58) NICOLE RAFTER: Le teorie biologiche sul crimine negli Stati Uniti da Lombroso ad oggi in SILVANO MONTALDO – PAOLO TAPPERO, cit., p. 357.
    59) NICOLE RAFTER, cit., p. 358.
    60) RENZO VILLA, cit., p. 135.
    61) CESARE LOMBROSO: Palimsesti del carcere; Fratelli Bocca Editori, Torino, 1888, p. 282.
    62) RENZO VILLA, cit., p. 138.
    63) GINA LOMBROSO FERRERO: Cesare Lombroso. Storia della vita e delle opere; Zanichelli, Bologna, p. 355.
    64) PATRIZIA GUARNIERI: Lombroso e la scienza positiva, in SILVANO MONTALDO – PAOLO TAPPERO, cit., p. 143.
    65) PATRIZIA GUARNIERI, , cit. p. 145.
    66) FRANCO PELELLA: Cesare Lombroso: un precursore nell’utilizzo del paradigma indiziario, cit., p.124.
    67) PATRIZIA GUARNIERI, Lombroso e la scienza positiva, cit. pp. 145-146.
    68) PATRIZIA GUARNIERI, Lombroso e la scienza positiva, cit. p. 146.
    69) FRANCO PELELLA: Cesare Lombroso: un precursore nell’utilizzo del paradigma indiziario, cit., p.125.
    70) FRANCO PELELLA: Cesare Lombroso: un precursore nell’utilizzo del paradigma indiziario,cit., p.125.
    71) MICHELE NANI: Lombroso e le razze, in SILVANO MONTALDO – PAOLO TAPPERO, cit., p. 173.
    72) LUIGI BULFERETTI: Cesare Lombroso; UTET, Torino, 1975, p. 177-178.
    73) SILVANO MONTALDO – PAOLO TAPPERO (a cura di): Il Museo di Antropologia criminale «Cesare Lombroso»; UTET, Torino, 2009.
    74) SILVANO MONTALDO – PAOLO TAPPERO: La storia del museo, in SILVANO MONTALDO – PAOLO TAPPERO, cit., pp. 3-4.
    75) CESARE LOMBROSO: L’uomo delinquente, cit., pp. 215-216.
    76) GIACOMO CANEPA, cit., p. 91.
    77) MARIO PORTIGLIATTI BARBOS: Medicina ed antropologia criminale nella cultura positivista, in EMILIO R. PAPA (a cura di): Il positivismo e la cultura italiana; Franco Angeli, Milano, 1985, p. 441.
    78) MARIO PORTIGLIATTI BARBOS, cit. p. 442.
    79) PIERO BIANUCCI: Orrori ed errori. La lezione della scienza che sbaglia, in SILVANO MONTALDO – PAOLO TAPPERO: Il Museo di Antropologia criminale «Cesare Lombroso», cit., p. 61.
    80) GIACOMO GIACOBINI – CRISTINA CILLI – GIANCARLO MALERBA: La sfida di un nuovo allestimento in SILVANO MONTALDO – PAOLO TAPPERO: Il Museo di Antropologia criminale «Cesare Lombroso», cit., p. 40.
    81) LUISA MANGONI: Una crisi fine secolo, cit., p. 200.
    82) PIERO BIANUCCI, cit., p. 61.
    83) PIERO BIANUCCI, cit., p. 62.
    84) PIERO BIANUCCI, cit., p. 62.
    85) MARIO PORTIGLIATTI BARBOS, cit. p. 440.
    86) PIERO BIANUCCI, cit., p. 63.
    87) GIACOMO GIACOBINI – CRISTINA CILLI – GIANCARLO MALERBA, cit., p.38.
    88) GIACOMO GIACOBINI – CRISTINA CILLI – GIANCARLO MALERBA, cit., p.40.
    89) PIERO BIANUCCI, cit., p. 63.
    90) MARIO PORTIGLIATTI BARBOS, cit. p. 442-443.
    91) CARLO GINZBURG, cit., pp. 92-93.
    92) MARC RENNEVILLE: Un cranio che fa luce? Il racconto della scoperta dell’atavismo criminale in SILVANO MONTALDO – PAOLO TAPPERO: Il Museo di Antropologia criminale «Cesare Lombroso», cit., p. 110.
    93) MARIO PORTIGLIATTI BARBOS, cit. p. 440.
    94) MARC RENNEVILLE, cit., p. 112.
    95) MARC RENNEVILLE, cit., pp. 110-111.
    96) PIERPAOLO LESCHIUTTA: Le scritture, i segni, i manufatti del carcere in SILVANO MONTALDO – PAOLO TAPPERO: Il Museo di Antropologia criminale «Cesare Lombroso», cit., pp. 171-172.
    97) CESARE LOMBROSO: Palimsesti del carcere, cit., p. 6.
    98) PIERPAOLO LESCHIUTTA, cit., pp. 174-175.
    99) RENZO VILLA: Dai corpi dei rei ai corpi dei reati: mezzi materiali e moventi psichici in SILVANO MONTALDO – PAOLO TAPPERO: Il Museo di Antropologia criminale «Cesare Lombroso», cit., pp. 177-178.
    100) Un’ipotesi del genere è stata sostenuta, agli inizi del ventesimo secolo, anche dal grande intellettuale ungherese Max Nordau. Cfr. MAX NORDAU: Signification biologique de la degenerescence, in AA. VV.: L’opera di Cesare Lombroso; Fratelli Bocca, Torino, 1908, p. 249.
    101) Cfr. FERRANDO MANTOVANI: Il secolo XIX e le scienze criminali in UMBERTO LEVRA (a cura di): La scienza e la colpa, cit., p. 76.
    102) CESARE LOMBROSO: L’uomo delinquente, cit., p. 367.
    103) CESARE LOMBROSO: L’uomo delinquente, cit., pp. 336-79.
    104) PIERPAOLO LESCHIUTTA: Lombroso e i tatuaggi, in SILVANO MONTALDO – PAOLO TAPPERO: Il Museo di Antropologia criminale «Cesare Lombroso», cit., pp. 188-189.
    105) PIERPAOLO LESCHIUTTA, cit., p. 189.
    106) PIERPAOLO LESCHIUTTA, cit., pp. 189-190.
    107) PIERPAOLO LESCHIUTTA, cit., p. 190.
    108) PIERPAOLO LESCHIUTTA, cit., p. 192.
    109) PIERPAOLO LESCHIUTTA, cit., p. 192.
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