1. Recensione del libro di ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA e ALDO SCHIAVONE: Una profezia per l'Italia; Mondadori, Milano, 2021

    By Franco Pelella il 15 Jan. 2022
     
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    Gli storici Ernesto Galli della Loggia e Aldo Schiavone hanno scritto un libro bello, appassionato e in gran parte condivisibile sul Mezzogiorno (Una profezia per l'Italia. Ritorno al Sud; Mondadori, Milano, 2021). Secondo loro il Sud si sta virtualmente staccando dal resto della Penisola, sta diventando un altro Paese; un dato non solo incontestabile, ma ormai accettato da tutti in un silenzio che essi trovano ogni giorno più insopportabile. Nel Meridione d’Italia l’applicazione delle leggi, il funzionamento dei servizi, della scuola, della sanità, dell’amministrazione, del fisco, la qualità della convivenza civile e della vita pubblica sono diversi, sempre più diversi, e in peggio, rispetto a quelli del Centro e del Nord; l’aspetto stesso dello Stato appare mutato in quei contesti, come se avesse cambiato volto e significato. E chissà, è venuto loro da pensare, che le condizioni del Mezzogiorno non siano diventate ancora più difficili proprio da quando gli uomini e le donne della politica italiana hanno smesso di frequentarlo e di conoscerlo come invece facevano un tempo; da quando il giornalismo non ha più considerato interessante visitarlo e la cultura del Paese si è in gran parte dimenticata di che cosa esso sia stato e ora è diventato.
    Secondo loro sarebbe sciocco immaginare che dietro ogni fallimento o inadeguatezza ci sia sempre, direttamente identificabile, la delinquenza organizzata; c’è di sicuro molto altro, più impalpabile, meno cruento, ma anche situato più in profondità. Di certo, però, dietro la rovina di tutto ciò che è pubblico c’è nel Mezzogiorno qualcosa che è compatibile se non omogeneo rispetto al nocciolo duro dell’autentica mentalità criminale; qualcosa che è insieme causa (anche se non la sola) ed effetto della presenza delle vere e proprie organizzazioni camorristiche, ’ndranghetiste o mafiose in senso stretto, qualcosa che non si potrebbe definire meglio se non come una cultura diffusa dell’extralegalità. Si tratta di un insieme di modi di pensare e di comportarsi che si esprime nella forma di una radicata indifferenza verso quasi ogni norma dettata dal potere legale, di completa estraneità rispetto a ogni dimensione collettiva, a ogni comportamento conforme alle regole emanate dallo Stato; una specie di apatia – un atteggiamento tra indolenza e fastidio, pronto ad accettare anche il peggio, e a adattarvisi, pur di ricavarne qualche vantaggio personale, anche minimo – penetrata in tutti gli strati sociali, che in un certo senso fa da terreno di coltura rispetto all’illegalità vera e propria, quella dell’autentica delinquenza, perché le spiana la strada, ne è il volto non clandestino e non sanguinario, ma pur sempre complementare.
    La loro convinzione è che proprio perché siamo di fronte a un fenomeno estremamente diffuso, presente quasi in ogni istante e in ogni dove, esso in fin dei conti è anche a sua volta vulnerabile; lo si può contrastare e aggredire; a patto naturalmente che si abbia la reale intenzione di farlo, e si sia capaci di immaginare le strategie opportune. Soprattutto, si sia convinti di questo punto decisivo e cioè che al Mezzogiorno non servono tanto leggi eccezionali contro la delinquenza organizzata; servono invece regole e politiche volte a bonificare lo spazio sociale e mentale in cui la criminalità più liberamente si muove, finendo così con l’essere accettata. Serve cioè, in altri termini, un cambiamento radicale – una rivoluzione – nella sua cittadinanza.
    Si chiedono giustamente Galli della Loggia e Schiavone: identificare e combattere una cultura, opporsi a quell’ethos meridionale dell’«extralegalità», che ha le proprie radici nella specificità della storia intellettuale e morale del Mezzogiorno significa davvero discriminare le popolazioni meridionali rispetto all’eguaglianza sancita dalla nostra Costituzione? Oppure serve piuttosto a riconoscere i nostri mali e le nostre fragilità – del Paese tutto intero, uno e indivisibile – come premessa per poterli meglio curare? Essi ricordano che tutti coloro che tra l’Ottocento e il Novecento, sulla scia di Franchetti e Sonnino, s’interessarono ai problemi del Mezzogiorno – raccolti sotto l’etichetta di «questione meridionale» – dando vita al «meridionalismo», non mancarono mai, pur soffermandosi sugli aspetti di natura economica, di sottolineare quelli più propriamente culturali, che attengono alla storia delle mentalità. Per i due storici sollevare cioè il tema della carenza – in generale italiana, ma particolarmente grave nel Mezzogiorno – di un senso civico adeguato alle esigenze di un grande Paese che ha fatto tutti i conti con la modernità, e magari aggiungere che una simile lacuna spiana indirettamente la strada alla mafia e alla camorra, suona a molti politicamente scorretto, come un giudizio dal sapore tendenzialmente razzista. Ma dovremmo chiederci: alle orecchie di chi? In realtà, soprattutto di quel particolare mainstream mediatico-culturale convinto, più o meno in buona fede, che qualsiasi osservazione critica nei confronti dei comportamenti di un gruppo o di una qualunque collettività possa già rappresentare il primo passo sulla via verso Auschwitz e che dunque ogni giudizio del genere vada comunque rigettato a priori; con il risultato di precludersi così un’autentica comprensione critica della realtà e di lasciare molte domande senza risposta. Per non dire della frattura, che in tal modo si viene a creare, fra senso comune (che mantiene una presa diretta sulle cose) e discorso pubblico.
    Scrivono giustamente Galli della Loggia e Schiavone che per un lungo tratto dei nostri ultimi decenni, nell’approccio alla questione meridionale è stata assai evidente la diversità tra senso comune da una parte, e opinione ufficiale del Paese dall’altra – cioè quella della politica e dei ceti più colti – che considerava il divario Nord-Sud essenzialmente come il prodotto solo di una grave e perdurante arretratezza economica, sorvolando sugli aspetti, diciamo così, culturali e di mentalità, e sulla loro autonomia; per concluderne che l’eliminazione, grazie ad appositi interventi pubblici, del ritardo produttivo avrebbe implicato da solo, in modo quasi automatico, anche un profondo cambiamento sociale e, con esso, la fine di ogni divario. Ma mentre l’Italia «ufficiale» la pensava in questo modo, il Paese «reale» – il suo senso comune, la sua coscienza diffusa – continuava invece a credere che le cose stessero diversamente e cioè, non solo che le diversità culturali del Mezzogiorno rispetto al resto d’Italia non fossero un dato dipendente – almeno nel breve e nel medio periodo – unicamente da ragioni economiche in senso stretto, ma che proprio la loro esistenza in quanto tale costituisse un formidabile ostacolo a ogni radicale miglioramento delle condizioni economiche e civili di quelle regioni; che la realtà fosse cioè più complessa di come la si voleva far apparire, e che semplificarla in nome di una versione economicista del «politicamente corretto» non aiutasse.
    Secondo i due storici il Mezzogiorno si è frantumato, esso non esiste più e la sua unità è stata cancellata prima di tutto dalla politica; non solo da quella nazionale, che ha smesso da tempo di occuparsene, ma dalla stessa politica che si fa quotidianamente nelle regioni e nei comuni del Sud. E così pure è stata rimossa dalle sue cronache, dalle sue parole d’ordine e dalla sua cultura. Come se la lunga stagione del meridionalismo postunitario si fosse conclusa in silenzio e quasi all’improvviso in una specie di estenuato e generale addio alle armi In un’opaca rassegnazione alla disunità, al modesto realismo di una presa d’atto inevitabile; e l’antico impegno fosse sopravvissuto soltanto nella richiesta, variamente motivata, di una dislocazione «risarcitoria» (è stato detto) di risorse aggiuntive da destinare genericamente alle regioni a sud di Roma. Quasi che non ci fosse davvero rimedio al dualismo italiano e bisognasse arrendersi all’evidenza che la cittadinanza repubblicana non può essere la stessa a Bologna o a Mantova rispetto a Enna o a Caserta per via dell’esistenza di un divario incolmabile, per alcuni aspetti addirittura cresciuto negli ultimi anni. Come se i diritti, gli obblighi, le aspettative attraverso cui prende forma l’esistenza di ognuno di noi, il quadro civile costruito intorno all’operare dei singoli, non possano essere uguali dovunque nel Paese, e dunque non ci fosse altro da fare se non accettare la diseguaglianza, e adattarvisi in qualche maniera.
    Per Galli della Loggia e Schiavone la sparizione dei partiti ha invece riportato allo scoperto tutti i nodi irrisolti nella vita pubblica del Mezzogiorno: e anzitutto quel divario culturale che tante volte si è cercato di occultare. Ha mostrato in modo spietato l’antica esilità civile, mai davvero curata, e ha alterato la qualità di quel poco di tessuto autenticamente politico e democratico che i primi quarant’anni di storia repubblicana erano riusciti bene o male a costruire, e dei legami che erano stati capaci di mettere in piedi. Gli autori esitano a usare il termine «regressione», perché secondo loro non solo di questo si tratta, ma essi sostengono che nel giro di un ventennio, tra gli anni Novanta e il primo decennio del nuovo secolo, sono state erose solidarietà e appartenenze – sindacali, di partito – che avevano comunque proiettato i loro contenuti – anche quelli legati alla rappresentazione di interessi estremamente parcellizzati, come la difesa di piccole posizioni individuali – entro orizzonti più vasti, che chiamavano in causa, accanto alle questioni e alle alleanze locali, ragioni di carattere più ampio e complesso, pubblico e generale. Appartenenze che avevano avuto la forza di rifarsi a motivazioni e a scelte, anche ideologiche – l’idea cattolica della società, o il comunismo – bene o male capaci di andare al di là del particolarismo delle singole esistenze o dei singoli clan, mettendo in campo un tipo di mediazione che, pur quando rischiava di essere solo apparente, di facciata, riusciva comunque a mantenere il gioco politico su un piano di maggiore articolazione e dignità, almeno formale. Il collasso di quel sistema ha rotto in via definitiva questo precario equilibrio; ha fatto cadere per la politica la necessità di ogni costruzione più articolata, mettendo al suo posto esclusivamente una rete di relazioni e di fedeltà spesso prepolitiche se non proprio premoderne, dettate unicamente dalla dinamica di interessi riconducibili a chiusi orizzonti particolaristici (il «familismo amorale») – quando non a disegni autenticamente criminosi: vincoli che facevano emergere in piena luce il lato peggiore di una lunga storia di disgregazione, mai davvero riscattata.
    Quella stessa parte di cui hanno parlato loro Giandomenico Crapis e Gianni Speranza – un medico e un insegnante che è stato anche sindaco di Lamezia Terme – quando hanno raccontato di quella che a loro giudizio costituiva un’inversione abnorme nella vita pubblica calabrese: il capovolgimento secondo cui non era più la politica – nel senso dei partiti, dei loro dirigenti, dei loro rappresentanti in Consiglio regionale e negli enti locali – a determinare le scelte e gli orientamenti della Regione ma era invece la Regione stessa, come centro di comando amministrativo e come erogatore di fondi pubblici, a determinare la vita della politica attraverso la formazione di una specie di partito unico trasversale della spesa e del sottogoverno, sviluppato e ramificato a ridosso delle risorse, e dei meccanismi istituzionali, che le distribuivano. Non la politica che (come dovrebbe essere) controlla il potere – anche, e soprattutto, quello di spesa – ma il potere che dà forma alla politica per la propria autoconservazione.
    Per i due storici nel Sud le situazioni si ripropongono incredibilmente somiglianti, in una coazione a ripetere che ogni volta si rivela come un’autentica dannazione italiana; sono sempre le medesime sequenze a scorrere, tristemente familiari, quando si parla di Sud – e anche quando si parla di Napoli. Prima l’onda emotiva sollevata dall’emergenza – colera, Covid, terrificanti incendi estivi o quant’altro poco importa – in cui sembrerebbe venir fuori il meglio di cui siamo capaci e tutto appare possibile, anche le rotture più drastiche e le correzioni più radicali: «Da adesso, niente sarà più come prima» suona come un unanime coro; ma poi, in modo immancabile, quello stato di grazia indotto dalla gravità del momento evapora quasi all’improvviso, con la stessa rapidità con cui si era formato, mentre al suo posto riaffiorano, insormontabili, le dissipazioni, le incurie, le connivenze, le inerzie, i defilamenti e i distinguo di sempre, spesso accettati e coperti proprio da quelle medesime correnti d’opinione che appena innanzi erano apparse come le più determinate ad agire per il cambiamento – per non dire della corruzione sempre in agguato, o delle continue infiltrazioni criminali. Quello che appare sorprendente – e per certi versi persino drammatico – è che, a distanza di un secolo, i meridionalisti che parlavano del Mezzogiorno giravano entrambi intorno allo stesso problema, sembravano scoprire lo stesso vuoto che si rivelava dietro la volatilità d’intenti e la «disgregazione»; la questione adombrata non era altro che la frantumazione e la mancanza di adeguati legami sociali del popolo meridionale e delle sue classi dirigenti. Non l’inesistenza di queste ultime, bensì la loro mancanza di coesione e di connessioni intellettuali e sociali, la loro incapacità di aggregarsi intorno a un disegno e a un progetto di salvezza – e dunque la crisi permanente del loro rapporto con la politica e con la possibilità di darsi una rappresentanza capace di farsi carico del destino della propria gente e di condurla verso il riscatto.
    Per i due storici Il bilancio che si ricava dall’esperienza degli ordinamenti regionali meridionali è sotto gli occhi di tutti: ed è un bilancio disastroso; un esito ben lontano dalle attese di una volta, quando si vedeva nel compimento regionale della struttura delle autonomie un passo decisivo per la costruzione del tessuto democratico nel Sud e nello stesso tempo, lo si immaginava come uno strumento essenziale di rilancio dell’economia di questa parte della Penisola, attraverso l’ottimizzazione razionale – in quanto più ravvicinata ai territori e alle loro esigenze – della spesa e degli investimenti. Ma le speranze dei primi decenni della Repubblica – sulla cui spinta fu data attuazione, nei primi anni Settanta del Novecento, all’impianto regionalista previsto dalla Costituzione – sono state in larghissima misura tradite, e tanto più dopo la modifica del titolo V della Carta; e l’idea – in voga a sinistra – di stringere l’Italia in una rete di assemblee elettive, dai Consigli regionali sino a quelli scolastici e di quartiere, come garanzia della costruzione di un’autentica democrazia partecipata si è rivelata un progetto astratto e velleitario, sostanzialmente fallito. Un disegno progressivamente naufragato in un oceano di inefficienze, sprechi, corruzione, inadeguatezze, ridondanze burocratiche e particolarismi localistici che, rovesciando le aspettative iniziali, hanno sortito un effetto contrario a quello desiderato: perché hanno contribuito non poco al discredito e alla crisi della politica, e in particolare proprio di quei meccanismi di rappresentanza e di partecipazione che si sarebbero invece voluti rafforzare; mentre le regioni non sono mai riuscite a interpretare quel ruolo dinamico e innovatore che, alla loro nascita, molti pensavano potesse essere loro attribuito.
    Per Galli della Loggia e Schiavone in realtà non è solo del Sud che qui si dovrebbe parlare perché è ormai l’intero impianto del regionalismo italiano, e non solo quello del Meridione, che andrebbe sottoposto a un esame rigoroso, severo e senza timidezze, e andrebbe poi ridisegnato nello spirito di un ritorno all’impianto del 1970; il modo in cui è stata affrontata nei diversi contesti regionali la crisi provocata dal Covid ha offerto infatti l’occasione inattesa di una verifica spietata, che non ha toccato solo il Mezzogiorno, come conferma l’esempio drammatico della Lombardia e di altre regioni del Centro-Nord, a cominciare dalla Toscana. Quell’emergenza ha reso evidenti problemi e difficoltà di coordinamento, di organizzazione e di distinzione di poteri e di competenze fra regioni e governo centrale che attengono, è il caso di dirlo chiaramente, alla forma stessa del nostro Stato, e che è ormai impossibile continuare a ignorare senza rischi incalcolabili, che toccano il senso e il valore dell’unità nazionale; nell’anno cruciale della pandemia abbiamo avuto modo di assistere all’erosione sistematica e conflittuale di funzioni e di spazi che la Costituzione riservava, anche dopo la sua riforma, alla sfera dello Stato, da parte di regioni che – senza averne nemmeno gli strumenti operativi – erano portate ad agire come se si sentissero depositarie di un vero e proprio potere sovrano. E a nulla è valso ricordare, in questo caso, la differenza fra attribuzioni in materia di sanità, assegnate effettivamente alle competenze regionali, e compiti riguardanti la «profilassi internazionale», che spettano invece specificamente allo Stato, come hanno (invano) da poco ribadito due sentenze della Corte costituzionale. La deriva «regional-sovranista», avviata dalla modifica della Costituzione dell’ottobre 2001 ed esplosa clamorosamente in questo anno di crisi, è sembrata in più occasioni – soprattutto prima dell’arrivo di Draghi alla direzione del Paese – una tendenza inarrestabile, che nell’ora della verità ha rivelato tutti i guasti prodotti nei lunghi anni precedenti; presidenti di Regione investiti direttamente dal voto popolare, e quindi convinti di trovarsi in una condizione di superiorità politica nei confronti di governi deboli e spesso lacerati da divisioni profonde, hanno costretto questi ultimi – che avevano di fatto abdicato alla propria funzione – a sfiancarsi in un estenuante e raffazzonato lavoro di mediazione, che ha finito con il trasformare la cosiddetta «conferenza Stato-Regioni» in una specie di Senato delle regioni, più autorevole dello stesso Parlamento, pur operando al di fuori di ogni previsione costituzionale; con il risultato di squilibrare, soprattutto nei momenti più gravi, l’intera compagine statale, privandola di un centro capace di decidere per tutti in modo tempestivo e uniforme. Al posto di una direzione unitaria, ci siamo ritrovati alle prese con una specie di inedito e pericoloso federalismo sanitario, capace di produrre solo disordine e caos, in cui molte regioni – a cominciare da quelle più provate dalla pandemia – hanno dato il peggio di sé in termini di efficienza e di risultati ottenuti.
    Secondo i due storici nel Mezzogiorno in particolare, le Regioni non sono quasi mai riuscite a innescare un processo virtuoso di cambiamento per il meglio; né sono state capaci di fare da volano a meccanismi di sviluppo sociale e di crescita economica di una qualche consistenza e durata, o di selezione appena decente dei ceti dirigenti e del personale amministrativo. Al contrario, hanno solo moltiplicato in modo scriteriato burocrazie e centri di spesa, in una specie di vertigine autonomistica cui ci si è abbandonati senza alcun controllo, e senza che mai però fosse stato formalmente sancito il passaggio a una forma federale dello Stato, con gli indispensabili equilibri di pesi e contrappesi fra governo centrale e strutture locali che essa avrebbe comportato (per esempio, aumentando i poteri del presidente del Consiglio); una deriva consumatasi sulla base di spinte corporative o clientelari e di un localismo miope e senza respiro, nel vuoto di qualunque autentico progetto e di qualunque complessiva visione meridionalista. E così il personale politico, gli apparati, le amministrazioni di quelle regioni sono stati rapidamente risucchiati (sia pure con alcune, poche, eccezioni) in quel vuoto di trasparenza democratica, in quello spazio di fragilità civile che avevano già caratterizzato tanta storia meridionale.
    Ricordano Galli della Loggia e Schiavone che negli ultimi mesi, nel Meridione ancor più che altrove, l’attenzione e le critiche si sono fissate in modo quasi esclusivo sui presidenti di Regione – che molto spesso hanno cercato in ogni modo di rubare la scena per guadagnare visibilità e prestigio – e tutt’al più su alcuni dei loro assessori; ma in realtà è ben oltre questi discutibili (e discussi) personaggi che bisogna guardare perché le inefficienze del regionalismo italiano, in particolare di quello del Mezzogiorno, chiamano direttamente in causa, accanto alle deficienze dei quadri normativi e del tessuto istituzionale, le responsabilità di un ceto politico nel suo insieme: della sua selezione, delle sue capacità, delle sue pratiche di governo. Quella che si è creata è stata, in altri termini, una convergenza perversa: da un lato l’avventatezza dell’impianto legislativo, che ha prodotto il pasticcio di una specie di sconsiderato federalismo «all’italiana», dall’altro l’irresponsabilità – o quantomeno la complice passività – dei gruppi di potere alla guida delle diverse regioni, che hanno usato nel modo peggiore l’autonomia di cui inopinatamente si erano trovati a godere, interpretandola (o almeno cercando di farlo) come una specie di concessione irreversibile di una vera e propria sovranità, svincolata da ogni controllo: barattando così potere in cambio di disunione; atteggiamento presto tradottosi in una vera e propria ondata localistica, che nel momento più critico è sembrata sul punto di travolgere la figura e il ruolo stesso dello Stato.
    Galli della Loggia e Schiavone sottolineano poi che a Napoli e in Campania, come dappertutto nel Sud, i due fenomeni della prevalenza dell’elemento popolare-plebeo e del disprezzo per il proprio paesaggio si toccano con mano. Le briciole di benessere che lo Stato, unitamente alla pioggia d’impieghi pubblici e ai generosi bilanci regionali, ha dispensato a tanta piccola gente, si sono tradotte nella pura e semplice devastazione della natura; in un abusivismo sfrenato, in sopraelevazioni e ristrutturazioni raccapriccianti delle vecchie abitazioni, in migliaia di «villette» edificate sulle spiagge. Ed è così che è stato sfigurato e distrutto quanto restava del Mezzogiorno; le sue prospettive urbane, i suoi paesaggi marini, il suo patrimonio storico hanno subito un disfacimento irrimediabile, mentre l’opinione pubblica meridionale su tutto ciò preferiva e preferisce sorvolare: forse perché è un tema sul quale è difficile tirare in ballo responsabilità che non siano le proprie, visto che gli autori delle malefatte sono ovviamente tutti meridionali. E insieme, oggi ancora come sempre, vige la stessa inerzia assoluta da parte delle autorità locali; per un sindaco che fa abbattere quanto è stato costruito a dispetto della legge, ce ne sono almeno altri dieci che, in omaggio ai propri elettori, decidono invece di chiudere gli occhi. Agli autori sembra poi innegabile che sulla catastrofe di tanta parte del sistema sanitario meridionale pesino moltissimo le condizioni del contesto locale; una sanità che annovera una quantità ormai leggendaria di ospedali fantasma (iniziati e mai finiti: finanziati una, due, tre volte con costosissime attrezzature acquistate e rimaste lì a marcire inutilizzate per anni) e che ha visto ospedali privi di pronto soccorso, che chiudono i battenti nel weekend, e aziende sanitarie che per anni non presentano i bilanci. Episodi e comportamenti di fronte ai quali è inevitabile chiedersi se esista mai qualcosa di analogo in altre parti della Penisola, e se in realtà non siano per l’appunto questi fenomeni, e non il divario delle risorse, a determinare la differenza qualitativa tra i sistemi sanitari delle due parti del Paese. Gli uomini e le donne della politica meridionale sanno bene cioè che a rendere tragicamente inadeguata la sanità delle loro regioni – come altri servizi non meno essenziali – non è tanto la scarsità dei finanziamenti pubblici, che pure esiste ed è grave, ma la loro gestione (ancora un esempio, quello di una spesa farmaceutica che è inspiegabilmente di molto superiore al Sud rispetto alla spesa dell’Italia centrosettentrionale), condizionata da un variegato contesto di fattori locali, che vede quegli ambienti subalterni o protagonisti in prima persona: la pressione della malavita, la forza degli interessi della sanità privata, il sistema delle raccomandazioni sempre a favore dei peggiori.
    Scrivono gli autori che se davvero il punto fosse il divario delle risorse tra le varie aree del Paese allora però si porrebbe una domanda: perché mai la classe dirigente del Sud, i governatori e le maggioranze che guidano le sue regioni, le rappresentanze parlamentari di quei territori non hanno mai pensato di organizzare una protesta memorabile, di mobilitare la propria opinione pubblica (chi potrebbe tirarsi indietro?), di fare insomma le barricate – in senso metaforico, ma forse anche no – per reclamare almeno nella sanità la parità di trattamento finanziario? Ebbene, il sospetto è che non l’abbiano mai fatto perché ben consapevoli di avere, come si dice, la coda di paglia; perché sapevano, cioè, che in questo caso l’attenzione si sarebbe concentrata su di loro e sul loro operato, e di conseguenza tante, troppe, zone oscure della loro azione sarebbero venute inevitabilmente in piena luce. Il sospetto è che, in realtà, portare molti aspetti critici della condizione del Mezzogiorno all’attenzione dell’Italia sia l’ultima cosa che le classi dirigenti meridionali desiderino; esse hanno troppi scheletri negli armadi per potersi permettere di alzare davvero la voce, di organizzare una protesta democratica dai toni veramente forti. E sono fin troppo consapevoli anche della propria debolezza, del fatto di poggiare su una base di consenso magari quantitativamente massiccia, ma fragilissima dal punto di vista politico; insomma, in qualche modo sanno di essere in sostanza impresentabili, non credibili nel momento in cui decidessero d’iniziare una battaglia di verità. È in sostanza per questo che la vera dimensione della loro comunicazione pubblica è diventata pressoché unicamente la retorica del piagnisteo: quella che va bene per rinfocolare il campanilismo, per le finte interviste alle televisioni locali o per le serate tra i notabili del capoluogo; al massimo per organizzare una campagna elettorale ma parlare con forza al Paese è tutt’altra cosa.
    Gli autori sottolineano, poi, che un altro grave problema del Sud è quello scolastico; mentre infatti cominciano a lievitare gli indicatori del successo degli studenti meridionali agli esami finali di licenza, torna a riaprirsi, sebbene di poco, il divario nell’istruzione fra il Nord e il Sud. Sicché oggi il Mezzogiorno si colloca di alcuni punti sotto la media del tasso di scolarità del Paese (cioè la percentuale di coloro che vanno a scuola o all’università rispetto al totale della popolazione da 6 a 24 anni), e dal canto loro i dati Invalsi attestano che sia in italiano sia in matematica il livello di apprendimento degli studenti delle scuole secondarie di primo e secondo grado del Mezzogiorno risulta fortemente inferiore a quello dei loro colleghi del Nord e del Centro (fanno eccezione i giovani della Puglia, che mostrano una capacità di lettura superiore a quelli della Toscana), mentre gli studenti siciliani fanno a loro volta segnare i dati peggiori dell’intera area meridionale. È un risultato complessivo oltremodo significativo, tanto più se si pensa che in questa classifica, come dicono gli esperti, gli indici riguardanti il Sud sono molto probabilmente errati per eccesso a causa del fenomeno – assai diffuso in particolare in Campania, Calabria, Puglia e Sicilia – della collusione tra insegnanti e studenti al fine di migliorare in modo fraudolento gli esiti delle prove. Infine, le regioni del Sud sopravanzano quelle del resto del Paese quanto al numero dei giovani che abbandonano precocemente gli studi (ben il 21,4 per cento di quelli tra i 18 e i 24 anni ha lasciato la scuola dopo la licenza media).
    Si chiedono gli autori: c’entra forse qualcosa la mancanza di risorse? È difficile crederlo, dal momento che se c’è un settore nel quale lo Stato italiano ha speso, e spende oggi, nel Mezzogiorno più che nel resto del Paese, questo è proprio quello dell’istruzione (921 euro pro capite contro 836: questo è l’unico settore, con la giustizia e la sicurezza pubblica, dove si verifica un simile fenomeno). Forse lo Stato avrebbe dovuto spendere ancora di più, si può senza dubbio sostenere ma, in ogni caso, non si può certo dire che almeno questa volta non abbia fatto la sua parte. Se quindi i risultati sono quelli che sono, ciò non dipende evidentemente da una minore quantità di risorse, bensì da altri fattori che non possono essere fatti risalire a «Roma»; si tratta, per esempio, come indicano gli studi dedicati, della pessima condizione degli edifici scolastici in carico agli enti locali, della scarsa capacità di cooperazione che mostrano le varie componenti dell’istituzione scolastica, della tendenza delle autorità responsabili a creare «scuole d’élite» accanto a «scuole ghetto», e quindi alla concentrazione di studenti che vanno male nelle scuole che vanno male, dell’anzianità degli insegnanti e della mobilità dei dirigenti. Tutti fattori la cui incidenza percentuale risulta nel Sud più alta, talora molto più alta, che nel resto della Penisola, e dietro i quali non è difficile vedere l’influenza del tessuto sociale e di potere in cui la scuola stessa opera. Che cosa vuol dire tutto questo, se non che i ceti dirigenti meridionali hanno smesso di credere che l’istruzione conti qualcosa? Che hanno smesso di farlo se non come insieme di singoli individui – i quali è facile immaginare che anzi pensino bene di far studiare i propri figli nei posti migliori in Italia o all’estero – perlomeno in quanto gruppi sociali investiti di un ruolo pubblico; e che questi gruppi non considerano più l’istruzione né come una via maestra in vista dell’emancipazione dei propri concittadini, né come un elemento significativo per la definizione del proprio compito storico, della propria funzione dirigente. Il che suona anche come la presa d’atto di un’ormai rassegnata impossibilità di essere alla pari con il resto del Paese, di sentirsi italiani come gli altri. Verrebbe da dire che i ceti dirigenti, i particolare il personale scolastico, hanno smesso di credere nella scuola perché si sono arresi davanti alle difficoltà dovute al difficile ambiente socio-economico; si è abbandonato il rigore nella valutazione dei risultati scolastici per un atteggiamento lassista meno stressante.
    Ma gli autori sottolineano che anche nel campo degli studi universitari il Mezzogiorno non gode di buona salute e risente in vari modi degli effetti negativi dell’ambiente e dei suoi valori dominanti; lo testimonia il numero elevatissimo dei suoi giovani che scelgono di studiare nelle università del Centro-Nord, mentre neppure uno dell’Italia centrosettentrionale compie il percorso inverso. Il che non è certo tra le ultime cause della diminuzione del numero delle iscrizioni che si registra al Sud, in atto ormai da anni, anche se, a motivo della pandemia di Covid, sembra esserci appena stata una leggera inversione di tendenza. Che i gruppi dirigenti locali e gli amministratori pubblici non mostrino di avere in alcun modo a cuore le sorti dell’istruzione dei loro concittadini è poi ben documentato, per esempio, dai dati che si riferiscono al diritto allo studio, secondo cui la spesa media regionale per studente risulta al Sud la metà di quella del Centro-Nord (fa eccezione la Basilicata, probabilmente grazie ai fondi cospicui che le vengono dalle royalties sull’estrazione del petrolio); e lo stesso vale per l’offerta di posti letto disponibili nell’ambito pubblico (gestiti soprattutto da atenei ed enti regionali), e per l’offerta di posti nelle mense, che nel Centro-Nord sono una quantità tripla rispetto al Sud.
    Per Galli della Loggia e Schiavone oggi nel Sud non è più in gioco l’unità della Penisola perché esiste sì, oggi come ieri, una vera e propria spaccatura tra le due parti del Paese, ma essa non è più tra Paese legale e Paese reale, non ne mette più in crisi l’unità; è stata come anestetizzata, sicché da essa non ci aspettiamo in realtà alcun esito davvero drammatico come al tempo delle immense plebi contadine e del loro potenziale di violenza. Oggi nel Sud si misura qualcosa di assai diverso; si misura la «portata» complessiva dell’Italia come Paese, l’incidenza della statualità italiana nell’ambito europeo. Si decide cioè se in sostanza l’Italia consista esclusivamente nel Centro-Nord, se il Sud sia solo una sua appendice sempre più insignificante, ovvero se, grazie a una rinascita economica e civile del Mezzogiorno, il Paese sarà in grado non solo, per così dire, di ricompattarsi attraverso una vera integrazione in un blocco con un mercato interno più ampio e aperto a quelli d’Oltremare, ma anche se sarà capace di far pesare sulla bilancia degli equilibri geopolitici dell’Unione europea la sua posizione geografica meridionale-mediterranea ricavandone il relativo status internazionale. Quel che ci serve, secondo gli autori, è una specie di mobilitazione delle coscienze indotta dalla gravità dell’ora, promossa da un discorso di verità che venga da chi si trova alla guida del Paese; un discorso che ridia dignità alla politica e tenga a battesimo il nucleo di una rinnovata classe dirigente, in primo luogo meridionale, che costruisca intorno a essa una nuova alleanza, capace di aggregare strati sociali che vadano al di là delle vecchie e ormai obsolete strutture di classe, e sappia guardare al nuovo lavoro, alle nuove figure intellettuali, alle aggregazioni di competenze e di ruoli che si stanno appena formando, e che sono, nonostante tutte le difficoltà, cariche di promesse.
    L’opinione degli autori è che per avere qualche speranza di successo, occorre anzitutto che vengano dette di fronte all’opinione pubblica – e per prima a quella meridionale – parole di verità, come da troppo tempo non si sono sentite, che tornino a chiamare le cose con il loro autentico nome, senza finzioni e senza paure. È necessario che le condizioni in cui versa il Mezzogiorno vengano presentate nella loro cruda realtà: il degrado dei centri urbani, a cominciare da quelli di Napoli e di Palermo, proprio i più ricchi e preziosi; lo scempio dei territori e la rete di connivenze e di interessi locali che lo rende possibile; la cronica scarsità degli investimenti; la perdurante e scandalosa insufficienza dei servizi pubblici, dalla sanità alla scuola, ai trasporti urbani (la storia dei lavori per la metropolitana di Napoli, fino all’ultimo episodio della stazione Duomo che non finisce mai di esser finita, meriterebbe un racconto a parte, come anche quello sullo stato in cui versa la ferrovia Circumvesuviana, almeno un segmento della quale attraversa o sfiora luoghi tra i più belli al mondo); la fuga irrefrenabile delle giovani generazioni; la diffusa diseducazione civile e la tolleranza inveterata per il proliferare vertiginoso delle microillegalità. Tutto questo andrebbe continuamente squadernato davanti all’opinione pubblica senza stancarsi, allo scopo principale di chiamare all’impegno quelle forze delle borghesie professionali e dei ceti produttivi, quel che resta della classe operaia e dell’intellettualità, perché ritornino alla politica; perché ritornino a occuparsi della cosa pubblica, a discutere del destino delle loro collettività e delle città in cui vivono, del futuro che li attende. Senza questo rientro nella politica di gruppi sociali che per le più varie ragioni se ne sono via via distaccati, lasciando la vita pubblica nelle mani degli homines novi sorti dal nulla e destinati a ritornarvi, ogni svolta del Mezzogiorno appare impossibile; da anni nel Sud c’è stata una sorta di capillare dimissione dal sociale compiuta individualmente e in silenzio da migliaia di uomini e donne, da cui è indispensabile tornare indietro.
    Gli autori sostengono di credere che sia possibile una svolta drastica nella storia del Sud, e che la sua decadenza possa essere ancora fermata, nonostante la gravità della situazione, peggiore di giorno in giorno, e nonostante la potenza delle forze che hanno ogni interesse a conservare lo stato esistente delle cose, perché questo procura loro vantaggi enormi in termini sia di denaro sia di potere. E sono convinti che ciò possa accadere a partire dal verificarsi di tre condizioni tutt’altro che irrealistiche: 1) una forte determinazione da parte dello Stato a considerare la salvezza del Sud come essenziale per la sopravvivenza stessa dell’Italia, e ad agire di conseguenza; 2) una larga disponibilità di risorse – per assicurare le infrastrutture, soprattutto nel settore delle comunicazioni, e i finanziamenti per l’imprenditoria locale – ma decisi e controllati direttamente dal governo centrale e non dalle autonomie; 3) la volontà di riscatto e di rinascita delle popolazioni del Sud e di gruppi dirigenti che devono uscire allo scoperto e assumersi le loro pubbliche responsabilità. E dovrebbero, soprattutto, riprendere la parola, con critiche, analisi, scelte e proposte perché il loro silenzio in questi anni – e in particolare il silenzio degli intellettuali meridionali – è stato uno degli aspetti più gravi e sconcertanti di una perdita di peso e di ruolo che non riguarda solo il Sud, ma che nel Sud ha assunto le tinte più preoccupanti.
    Secondo gli autori per il Sud un percorso di sviluppo autonomo dovrebbe provare a battere principalmente due strade: quella del turismo e quella della filiera agroalimentare – integrate da alcuni spazi produttivi ad alta tecnologia, costruiti, come a Catania, attraverso sinergie tra ricerca pubblica e iniziativa privata. Dunque un turismo agli antipodi rispetto alla criminale distruzione delle coste cui si sono abbandonate con autolesionistica spensieratezza le folle della Calabria, così come agli antipodi dell’avidità mercantile dei cosiddetti «operatori turistici» che da Trani a Santa Maria di Leuca, all’ormai devastata Gallipoli, stanno devastando l’intera costa pugliese sulle orme dei loro amministratori che hanno disseminato la regione di pale eoliche; un turismo affidato a una promozione internazionale intelligente, e organizzato in itinerari storico-culturali capillarmente diffusi sul territorio. Egualmente un’agricoltura non solo sottratta al ricatto economico della grande distribuzione, e quindi al vincolo del lavoro schiavistico degli extracomunitari, ma capace di fare tutt’uno con la salvaguardia della natura, inserita organizzativamente nella sua tutela.
    Secondo Galli della Loggia e Schiavone lo Stato dovrebbe svolgere solo una funzione di supporto, ma decisiva, ed essa dovrebbe essere pensata in modo da non potere in alcun caso essere piegata a un uso clientelare da parte soprattutto della politica locale; l’azione dello Stato dovrebbe cioè scavalcare ogni possibilità di intermediazione a opera degli apparati politico-amministrativi regionali. Il sostegno statale dovrebbe avere un carattere diretto – evitando ogni mercanteggiamento e divisione delle spoglie come quelli che si realizzano intorno al famigerato tavolo Stato-Regioni. Esso dovrebbe muoversi lungo quattro direttrici strategiche. La prima potrebbe essere rappresentata da una generosa politica del credito agevolato, da concedersi a tassi irrisori (per esempio, da apposite sezioni, da creare con una normativa ad hoc, presso le sedi regionali della Banca d’Italia) alle iniziative imprenditoriali che lo meritano. La seconda dovrebbe essere rappresentata dalla costruzione di una moderna rete di comunicazioni (telematiche, stradali, ferroviarie e portuali) in rete di comunicazioni (telematiche, stradali, ferroviarie e portuali) in grado di coprire capillarmente tutto il territorio. Adempiute queste due funzioni di natura economica, lo Stato dovrebbe impegnarsi con la passione e la decisione necessarie in altri due compiti di natura, diciamo così, sociale e culturale; uno (la terza delle direttrici strategiche di cui dicevamo) dovrebbe consistere in un massiccio investimento nel sistema scolastico-universitario e il quarto e ultimo consiste in un’amministrazione della giustizia veloce e puntuale, con una repressione senza mezzi termini, capillare e continua, non solo della delinquenza organizzata – cosa, quest’ultima, che già fa con risultati buoni, anche se ancora lungi dall’essere soddisfacenti, specialmente in Calabria e in alcune aree del Napoletano e del Foggiano – ma anche dell’illegalità diffusa, così comune nel Mezzogiorno. Ma perché queste esperienze possano aversi è necessario che vi sia un contesto favorevole. Nel corso di un secolo e mezzo, milioni di emigrati meridionali hanno mostrato nei più diversi Paesi del mondo quello che erano capaci di fare. Come mai? La risposta è una sola: perché il contesto intorno a loro era diverso, assai diverso, da quello da cui provenivano, e bastava ciò a far sì che riuscissero a tirar fuori qualità e capacità insospettabili. Ebbene, nel Mezzogiorno il compito della collettività italiana deve essere appunto questo: non già inventarsi i più vari modi per elargire risorse a fondo perduto, bensì cambiare nella maniera più decisa il contesto che oggi caratterizza questa parte del Paese; sopperire alla mancanza di capitali aprendo il credito a chi lo merita, rompere il suo isolamento rendendone facili e veloci tutte le comunicazioni, diffondere il sapere e le conoscenze indirizzandoli dove più conviene, imporre in ogni ambito il rispetto della legalità, spazzare via le zone d’ombra nei legami familiari e di clan, rompere la corazza dell’individualismo menefreghista, accaparratore e prepotente.
    Ripeto, in conclusione, che il libro di Ernesto Galli della Loggia e Aldo Schiavone è bello, appassionato e in gran parte condivisibile. Solo alcuni punti sono discutibili. 1) Gli autori sostengono che si può discutere all’infinito se sia nato prima l’uovo o la gallina – se la forza espansiva della criminalità abbia preceduto la formazione dei caratteri e delle morali o ne sia una conseguenza – ma nessuno toglie loro dalla testa che se per un miracolo questa parte d’Italia fosse liberata d’improvviso dalle grandi associazioni malavitose, molto, per non dire quasi tutto, qui sarebbe diverso; e infatti, secondo loro laddove nel Mezzogiorno è assente un radicamento storico della criminalità (come in gran parte della Basilicata o in Irpinia) la situazione è già ora diversa. Ma questa ipotesi è discutibile; non è scontato che eliminata la criminalità organizzata dal Sud tutti, o quasi tutti, i problemi saranno risolti. Lo scarso senso civico di molti meridionali condizionerebbe ancora parecchio la realtà. 2) La loro convinzione, poi, è che nella politica e nell’amministrazione si addensano i fenomeni degenerativi più gravi. Nel Mezzogiorno, in troppi luoghi il circuito delle istituzioni è profondamente malato e contamina tutto quello con cui viene in contatto; se non s’interviene perciò a questo livello, ogni altro provvedimento è inutile. Il sottoscritto, però, non è convinto che nella politica ci siano i fenomeni degenerativi più gravi nel Sud; in questo modo si rischia di sottovalutare la gravità della delinquenza organizzata e i fenomeni degenerativi diffusi a tutti i livelli nella società meridionale. 3) Si chiedono, infine, gli autori: se l’immagine del Sud che hanno tratteggiato – a oltre un secolo e mezzo dall’unità – lo presenta in un vicolo cieco, in una condizione con aspetti di rischio estremo, con l’esistenza di connotati culturali e mentali che definiscono qualcosa che si avvicina a un «carattere meridionale» non sarà tutto ciò l’anticamera per la riproposizione di una visione discriminatoria delle popolazioni del Mezzogiorno, con un fondo se non proprio razzista, quantomeno nutrito di un forte pregiudizio antisudista? Essi rispondono che non è così e che semmai è vero proprio l’opposto: che cioè è una valutazione fondamentalmente positiva del popolo del Sud nella sua specificità storica a orientare il loro giudizio e la loro denuncia. Ma la mia opinione è che non si può dare un giudizio positivo sui comportamento della popolazione del Sud dopo aver espresso tanti giudizi negativi su vari aspetti di esso. In questo modo si rischia di riproporre la vecchia e sbagliata distinzione tra popolo e classe dirigente, con il popolo sostanzialmente innocente e la classe dirigente responsabile di tutti i mali.
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