1. FRANCO PELELLA: La delinquenza organizzata: un elemento strutturale della società napoletana

    By Franco Pelella il 26 Jan. 2018
     
    0 Comments   85 Views
    .
    Tra la fine del 2015 e gli inizi del 2016 in due occasioni l’opinione pubblica nazionale è stata chiamata a discutere della presenza storica della violenza a Napoli. Mentre era in missione a Napoli nel settembre del 2015 la presidente della Commissione parlamentare antimafia, Rosy Bindi, ha affermato che «la camorra è un dato costitutivo della città partenopea» (1) salvo poi rettificare in parte l’affermazione, a seguito delle nutrite proteste sopravvenute, e in particolare delle dichiarazioni del procuratore Giovanni Colangelo, protagonista delle inchieste sul clan dei «casalesi», che aveva osservato che «la camorra non è nel Dna dei napoletani» (2). Successivamente, alla fine del 2015, è stato pubblicato il libro dello storico napoletano Amedeo Feniello Napoli 1343. L’uscita del volume è stata accolta con grande clamore soprattutto a causa della recensione apparsa all’inizio del 2016 su La Lettura, il settimanale letterario del Corriere della Sera (3). Quello che ha fatto molto discutere è stata l’ipotesi, suggerita dal titolo dell’articolo, che la camorra avesse una genesi nella Napoli medievale.
    Ma cosa ha scritto, effettivamente, nel suo libro Amedeo Feniello? Egli ha innanzitutto messo in connessione due episodi: nel novembre del 1343 all’interno del porto di Baia, nel golfo di Napoli, di notte una nave genovese carica di merci venne assaltata, l’equipaggio venne catturato e il capitano barbaramente ucciso; a gennaio del 2005 a Casavatore, alla periferia di Napoli, a seguito di un raid camorristico tre giovani furono ammazzati davanti a una scuola. Secondo Feniello “…tra i due episodi, quello del 1343…e quello del 2005…qualcosa forse esiste: un nesso. Un legame che li unisce. Un filo che si chiama – per usare la terminologia di chi ha dimestichezza con la storia – una struttura di lungo periodo. Una struttura che si può assottigliare fino a diventare minuscola e impercettibile come un filamento, oppure assumere dimensioni e connotati sempre più grandi, simili a quelli di un’autostrada a sei corsie, ma che ha una caratteristica: che è costante. E che permane, nei suoi caratteri sostanziali, anche quando la sua incidenza si riduce, perché resistono. E che non è legata solo all’economico o al sociologico o all’antropologico, ma che è radicata nella memoria, impressa fedelmente, come il solco di un disco in vinile, nelle fondamenta del vivere di una città come Napoli. Un germe indistruttibile, fatto di tempo, di durata, di stabilità, di codici, tradizioni, pregiudizi e norme che, nel corso di questi settecento anni, ha attecchito profondamente, con poche discontinuità” (4). Alla base di questa convinzione dello storico napoletano c’è la peculiare storia di Napoli. Nel corso del 12° e del 13° secolo a Napoli si formarono i cosiddetti “seggi”; essi costituirono “…sfere di potere autonomo, guidate da consorterie e clan familiari, le quali, man mano, aumentano il proprio prestigio e la propria capacità di intervento, attraverso la ripartizione del tessuto cittadino e l’appropriazione di gran parte del sistema di difesa urbano” (5). Secondo Feniello “…chi guidava il seggio guidava il quartiere: il luogo fisico in cui i clan amministravano la zona; stabilivano i criteri di difesa esterna e i compiti di ordine pubblico; tutelavano la morale e i costumi; stringevano patti di natura religiosa; dirimevano questioni giuridiche e patrimoniali; si appianavano le liti e i contrasti tra i clan, tranne che in materia di fatti di sangue. Nel quale si inquadrava la vita di ogni appartenente ad esso, dalla culla alla bara. Dalla nascita alla morte. Dove una solidarietà profonda lega i clan che ne fanno parte. E a ciascun individuo, uomo o donna che sia, è affidato un ruolo che viene svolto secondo le proprie capacità” (6). Ha scritto inoltre Feniello a proposito della violenza che ha caratterizzato storicamente Napoli: “Che la società napoletana fosse un universo dove la litigiosità non era episodica è evidente, fuor di dubbio. Basta soltanto considerare le controversie e le liti che vedono contrapposti napoletani e napoletani, laici e chierici, monaci e nobili nei documenti di età ducale, tanti più numerosi di quelli di età normanna (purtroppo più rari) e utile cartina di tornasole per capire le tendenze successive di lungo periodo, per rendersi conto non dico di un carattere genetico, sarebbe troppo; ma almeno di un leitmotiv che incontriamo costante ancora in periodo normanno e svevo” (7). Secondo Feniello “Impressiona una cosa: che più si va avanti e si leggono i fatti della vita cittadina, più appare chiaro che, in questo clima sociale basato sulla forza, la violenza diventa lo strumento condiviso e risolutore dei conflitti. Elemento dell’agire quotidiano che diviene la norma, per i motivi più vari – dalle questioni private a quelle che riguardano il gruppo e il clan. Con accoltellamenti, risse, faide in cui, dietro l’apparente insensatezza che li scatena e la crudeltà di colpi, violenze e omicidi che si scambiano l’uno e l’altro gruppo, c’è qualcosa di preciso. Un segnale: che le regole di questa strana convivenza, costruite su un codice fatto spesso di intenzioni, di non detto e di sguardi, sono state violate. Che un patto è stato rescisso. Un’alleanza si è spezzata” (8). Feniello ha citato poi ciò che Francesco Petrarca scrisse a Giovanni Colonna parlando di Napoli (dove risiedette nel 1341 e nel 1343): “Qui camminare di notte è come attraversare un bosco fitto pieno di pericoli. Assediano le strade adolescenti della nobiltà che girano armati, sui quali non si riesce ad avere nessuna autorità, né seguono la disciplina inculcata dai genitori, né li riesce a frenare il potere dei magistrati, né il comando o la maestà del re” [FRANCESCO PETRARCA: Le Familiari; ristampa anastatica, Le Lettere, Firenze, 1997, V, p. 6] (9). Secondo Feniello Scarabone Buttafuoco (che era, all’interno della novella boccaccesca di Andreuccio da Perugia, il capo dei delinquenti) in effetti era “Uno dei leader di quelle torme aggregate di latrocinatores e di furfanti che, in gruppo, di notte, davano l’assalto alle case e agli edifici, formate da un grosso numero (magno numero) di nobili decaduti, vagabondi, disertori, ex galeotti che terrorizzavano la città: figli dunque di quello stesso ambiente, per mentalità e psicologia, da cui provenivano gli uomini del sistema dei seggi, con la stessa idea di controllo del territorio e di governo della propria porzione del quartiere” (10). Anche Benedetto Croce scrisse a proposito dei delinquenti che popolavano la novella boccaccesca di Andreuccio da Perugia; secondo lui “Comitive di malviventi che si denominarono nel Quattrocento ruffiani e dipoi compagnoni e furono i veri e propri antenati dei posteriori camorristi” (11). Per Benedetto Croce erano alte le probabilità che la novella di Boccaccio su Andreuccio da Perugia possa essere stata scritta su ispirazione di un vero episodio di cronaca accaduto al commerciante Cenni di Bardella. Scrive Feniello: “Un fatto però è certo: che vicende come questa alimentarono a Firenze, proprio in tale periodo, l’immagine di Napoli paradiso abitato dai diavoli” (12).
    La mia opinione è che Rosy Bindi e Amedeo Feniello hanno sostanzialmente ragione. Effettivamente la violenza è un elemento strutturale della città di Napoli. La storia di una città ha un peso notevole nel determinare le sue sorti future; se nel passato, anche lontano, in una città c’era molta violenza è molto probabile che la violenza rimarrà una caratteristica di quella città a meno che non si verifichino nel tempo grossi cambiamenti politici e sociali. Recentemente lo storico Isaia Sales ha dedicato una riflessione ai motivi della lunga durata della violenza diffusa a Napoli, ed in particolare alla lunga durata del fenomeno camorristico. Egli ha scritto che: “Ciò che noi definiamo camorra è nei fatti un dinamico sistema criminale, una modalità di agire illegale, che si protrae ininterrottamente da almeno due secoli. Ed è impressionante constatare la lunga continuità storica, la riproducibilità degli stessi meccanismi delinquenziali, ma soprattutto il fatto che essa si manifesti all’interno dello stesso recinto, degli stessi spazi urbani entro cui si è manifestata nel tempo storico precedente, al di là dei regimi politici e del mutato contesto. Ieri come oggi ne sono protagonisti i quartieri del centro storico di Napoli e i comuni che si trovano in un raggio di 40 chilometri dalla città e che sono stati influenzati fortemente, quasi plagiati, dai comportamenti dominanti nel capoluogo. L’unica novità degli ultimi decenni è l’ingresso (alla grande) nel mondo criminale delle periferie costruite nel secondo dopoguerra e l’estensione del fenomeno oltre quei luoghi dopo il terremoto del 1980. Un fenomeno di tale resistenza storica, di tale pervicacità, di tale forza riproduttiva, merita almeno un’analisi non banale, non antropologica delle sue ragioni” (13). Mi chiedo: perché un’analisi antropologica della persistenza nei secoli del fenomeno camorristico a Napoli sarebbe banale? Se le altre spiegazioni (economica, sociale) si sono rivelate insufficienti perché non utilizzare la spiegazione di tipo antropologica? Si possono considerare banali le riflessioni di grandi antropologi (come Claude Levi-Strauss) e di grandi storici (come Fernand Braudel) sulla permanenza nei secoli di fenomeni sociali definibili “strutture di lungo periodo”? Perché la permanenza nei secoli a Napoli di un gruppo consistente di persone che fanno sistematicamente uso della violenza è sicuramente una “struttura di lungo periodo”: un fenomeno sociale che mantiene caratteristiche abbastanza simili nel tempo. Perché ciò accade? Soprattutto perché certe caratteristiche antropologiche e ambientali di una società si tramandano nel tempo.
    Ma Rosy Bindi e Amedeo Feniello non hanno completamente ragione perché dire che la violenza è un elemento costitutivo della società napoletana significa anche dire che non ci potrà mai liberare di essa perché si tratta di un elemento intrinseco a questa società. Secondo me andava, forse, più correttamente detto che fino a quando la società napoletana sarà caratterizzata dal degrado attuale, con una disoccupazione giovanile di massa, uno scarsissimo senso civico e un abbandono di interi quartieri alla delinquenza, sarà impossibile liberarsi dalla violenza. Rosy Bindi e Amedeo Feniello non avrebbero dovuto far intendere che la società napoletana è una struttura sociale statica, non soggetta a cambiamenti, perché, come tutte le società, anche la società napoletana è cambiata nel tempo pur essendo fortemente condizionata dalla sua storia violenta ma la violenza esistente in passato (anche nel recente passato) non è paragonabile a quella di oggi perché anche a Napoli, come in quasi tutto il mondo, si sta verificando il suo declino (14). Se guardiamo ai dati relativi agli ultimi decenni il tasso di omicidi ogni centomila abitanti, che è il principale indicatore di violenza di una società, a Napoli è passato dal 7,93% del triennio 1989-1991 ai 3,16% del periodo 2013-2016 (15). Ciò accade soprattutto perché la camorra è meno forte che in passato; molti capi sono in carcere, molti altri sono stati uccisi; non c’è più, cioè, la guerra tra clan che ha provocato il maggior numero di morti negli ultimi decenni.
    Alla teoria di Amedeo Feniello, relativa ad una continuità storica della violenza a Napoli, si è contrapposto recentemente lo storico Giovanni Vitolo. Secondo lui: “…anche quando sembra che ci sia continuità per un lungo arco di tempo e che si sia di fronte ad un fenomeno di lunga durata, le cose ad una attenta analisi appaiono molto più complesse, e quella che potrebbe sembrare una linea dritta è in realtà il risultato di scelte che sono state compiute in momenti diversi e tra varie altre possibilità, che lo storico ha il dovere di rendere di nuovo presenti: scelte che, per essere comprese appieno, vanno ovviamente contestualizzate, come ammoniva, già agli inizi del Cinquecento (!!!) Francesco Guicciardini nel 6° dei suoi Ricordi: È grande errore parlare delle cose del mondo indistintamente e assolutamente e, per dire cosí, per regola; perché quasi tutte hanno distinzione e eccezione per la varietà delle circunstanze, le quali non si possono fermare con una medesima misura” (16). Scrive Vitolo che “…una cosa è accertare che un determinato fenomeno si è verificato una volta o a più riprese solo a Napoli – città per la quale quando si parla di continuità la si intende ovviamente di segno negativo –, un’altra è constatare che nella sostanza, sia pur non necessariamente anche nella forma e nei dettagli, è dato di riscontrare situazioni analoghe in varie città del tempo, che poi hanno avuto storie diverse. Il che significa che, se pur partendo da situazioni analoghe, si giunge ad esiti non identici, lo storico deve andare alla ricerca degli altri fattori che nel corso del tempo li hanno determinati” (17). L’opinione di Giovanni Vitolo, riprendendo un’affermazione di Francesco Sabatini è che: «Le esaltazioni e gli angosciati giudizi di Petrarca e Boccaccio testimoniano che già al tempo loro l’enigma struggente che ha nome Napoli andava prendendo forma nel quadro della realtà italiana» (18). Scrive Vitolo: “Ritornando a Boccaccio, che nella famosa novella di Andreuccio da Perugia fa una rappresentazione molto viva della violenza della malavita napoletana, è da ricordare che nello stesso Decameron coglie anche un aspetto tutto affatto diverso della città, talché Matteo Palumbo ha potuto parlare, in riferimento alla sua opera, di «due Napoli»: quella violenta delle disavventure del mercante perugino (II, 5) e quella luminosa della cortesia e della magnificenza di Riccardo Minutolo (III, 6), la cui vicenda si svolge peraltro proprio nell’ambiente marino teatro di un noto episodio, sul quale Amedeo Feniello ha il merito di aver richiamato l’attenzione nel libro di cui si intende discutere in questa sede sul piano sia dei contenuti sia delle implicazioni metodologiche” (19). Sostiene Vitolo che “La vendetta su una persona, una famiglia o un gruppo di famiglie faceva parte del codice di comportamento che caratterizzava nel Medioevo l’élite nobiliare non solo di Napoli, ma anche delle altre città del resto dell’Italia e dell’Europa, tra cui Marsiglia, ma non è possibile individuare nessuna linea retta che la unisca all’efferata e spettacolare esecuzione, nel 2005, di tre giovani da parte di sicari di un clan camorristico avversario davanti a una scuola di Casavatore (in provincia di Napoli), da cui prende le mosse il libro di Feniello” (20). Scrive ancora Vitolo che “Un altro elemento che sembrerebbe accomunare i due episodi napoletani del 1343 e del 2005 è l’uso della violenza, ma qui andiamo ancora di più nel generico. A parte il fatto che i tre malcapitati giovani del 2005 erano organici ad un clan rivale, mentre il capitano della nave savonese del 1343, ammesso che sia stato effettivamente ucciso, era colpevole solo di trasportare generi alimentari, caricati peraltro in Sicilia e non a Napoli, non è possibile mettere sullo stesso piano tutte le forme di violenza, individuali o di gruppo, né tanto meno considerarle tipiche di una città o di un’altra. Quella del Medioevo è nel suo complesso una società caratterizzata da un alto tasso di violenza, che per secoli fu soprattutto la Chiesa a tentare più o meno efficacemente di contrastare, anche indirizzandola, con le crociate, verso l’esterno del mondo cristiano; ed è noto che i Comuni italiani nacquero proprio per garantire al proprio interno la pace, che comunque si rivelò un obiettivo tutt’altro che facile da raggiungere” (21). Conclude Vitolo che “…anche lo storico, al pari di tutti gli altri uomini e nonostante gli anticorpi che dovrebbe fornirgli il metodo critico che è alla base del suo lavoro, soggiace al rischio della precomprensione, nel nostro caso la convinzione, più o meno inconscia, che quella di Napoli sia sempre stata e sia tuttora una storia speciale, senza alcun legame con quella del resto dell’Italia e quindi da analizzare con canoni interpretativi speciali, iuxta propria principia avrebbe detto Bernardino Telesio; soprattutto una storia sostanzialmente immobile, anzi monotona nonostante le vampate ribellistiche e le effimere «ripartenze», e che in quanto tale è facile da capire, senza le complicazioni delle «circunstanze» del Guicciardini e delle scelte continue di Hans Freyer, così come è molto più agevole guidare in autostrada che nella periferia congestionata di un grande centro urbano. Una precomprensione che mi sembra pericolosa non tanto per la ricerca storica, che ha gli strumenti per limitarne più o meno rapidamente i danni, quanto piuttosto per la politica, che può trovare, come in effetti ha trovato e trova ancora oggi, nella «lunga durata» la giustificazione dei suoi fallimenti del presente” (22).
    La mia convinzione è che la critica di Giovanni Vitolo al libro di Amedeo Feniello non colga nel segno. Egli non è convincente sia quando sostiene che l’esercizio della violenza a Napoli in epoca medievale non è molto diverso da quella di tante altre città italiane perché la violenza era un elemento diffuso nella società medievale sia quando sostiene che Napoli non può essere considerata una città statica che ha mantenuto quasi inalterate le proprie caratteristiche nel corso dei secoli. Egli sottovaluta la specificità della realtà napoletana e la grande disgregazione sociale che la caratterizza già nel Trecento, come sottolineò Benedetto Croce evidenziando la grossa diffusione del proverbio, riferito a Napoli, di “paradiso abitato dai diavoli”. Egli, in una conferenza del 1923, affermò: “È un proverbio che ora non ha più corso, ma che per più secoli ebbe corso, questo: che Napoli fosse un paradiso abitato da diavoli. Lo si trova dappertutto nei libri europei che trattano di Napoli e dei suoi costumi…” (23). E poi disse: “…sono persuaso che il proverbio risalga per lo meno al trecento, e sia di origine più propriamente fiorentina, fiorito sulle labbra di quei mercatanti e altri uomini di negozi e di politica, che da Firenze in tanto numero venivano nel Regno al tempo degli Angioini” (24). Benedetto Croce era convinto che il proverbio evidenziasse una verità. Secondo lui “…la sua verità si ritrova facilmente nello spettacolo dell’anarchia feudale che il Regno di Napoli offriva in quei secoli ai cittadini dei Comuni e delle Repubbliche dell’Italia media e superiore, e nell’altro, congiunto, della rozzezza, della mancanza di arti, della povertà, dell’ozio, e dei vizi nascenti dalla povertà e dall’ozio, che esso offriva agli alacri mercanti fiorentini e lucchesi e pisani e veneti e genovesi, che qui si recavano per traffici. La sua verità era, insomma, nelle manchevolezze della vita civile e politica di questa parte d’Italia. Né nei secoli seguenti ci fu ragione di lasciarlo cadere in desuetudine, perché brigantaggio e violenza di plebi cittadine e tumulti e persistente rozzezza, e mali abiti, e povertà, e difetto di industrie e di operoso costume gli ridavano a volta a volta un contenuto attuale” (25).
    Della storica, grande disgregazione sociale della città di Napoli ha scritto anche, recentemente, lo storico Isaia Sales. Secondo lui: «Nel Seicento, nel Settecento e fino alla seconda metà dell’Ottocento, altre nazioni europee hanno avuto a che fare, soprattutto nelle grandi città e in particolare nelle capitali, con una criminalità urbana plebea, organizzatasi in proprio o al servizio di aristocratici e possidenti. Hanno visto proliferare delle “corti dei miracoli”, dove la feccia o gli “scarti” metropolitani di allora si mantenevano con il furto, la violenza, il raggiro, l’imbroglio. La letteratura dell’Ottocento ne è piena. Anche Parigi e Londra hanno conosciuto le conseguenze di un sovraffollamento urbano in periodi decisivi della loro storia, all’interno del quale si è prodotta una massiccia presenza di “classi pericolose”, di plebe, di sottoproletari senza né arte né parte. Nella capitale del Regno delle due Sicilie il fenomeno è stato più intenso, endemico, di massa, e il rapporto tra ceti aristocratici, possidenti, professioni borghesi, artigiane, operaie e popolo senza fissi mestieri è assolutamente non rapportabile a quello svoltosi nelle altre due capitali che sono state fin quasi alla fine dell’Ottocento, assieme a Napoli, le più popolate città europee per almeno tre secoli. Il riassorbimento del sovraffollamento plebeo è una delle peculiarità della formazione della Parigi e della Londra moderne all’interno delle loro funzioni di grandi capitali di nazioni industrializzate e di vasti imperi coloniali… A Napoli ciò non è avvenuto, ed essa rimane l’unica metropoli tra quelle che hanno contribuito a formare la storia e la cultura europee a trascinarsi dietro il peso di una criminalità urbana di sottoproletariato, che con diversa intensità, ruolo, pericolosità e modalità, ha comunque accompagnato stabilmente le varie tappe della sua trasformazione urbana, civile e sociale» (26).
    Ma Vitolo sottovaluta soprattutto un altro elemento che è stato evidenziato da Benedetto Croce e da altri studiosi, e cioè che il fattore specifico che può far parlare di una caratterizzazione violenta della storia di Napoli è la presenza costante della criminalità organizzata. Tale presenza può essere considerata una prova della caratterizzazione storicamente violenta della società napoletana perché a Napoli, e non in altre città italiane, la grande disgregazione sociale ha prodotto un elemento regolatore della stessa (si sa che la principale funzione della criminalità organizzata è questa). Come riportato sopra (e come sottolineato anche da Feniello) Benedetto Croce scrisse, a proposito dei delinquenti che popolavano la novella boccaccesca di Andreuccio da Perugia, che si trattava di “Comitive di malviventi che si denominarono nel Quattrocento ruffiani e dipoi compagnoni e furono i veri e propri antenati dei posteriori camorristi”. Ma di una presenza della criminalità organizzata a Napoli, in particolare nelle carceri, molto prima che nascesse la camorra hanno parlato anche altri autorevoli studiosi. Secondo lo scrittore Marc Monnier: “Fin dalla metà del secolo XVI il vice-re cardinale Gran Vela scriveva quanto segue (Pragm., 27 sett. 1573): «A nostra notizia è pervenuto che dentro, le carceri della G. C. della Vicarìa si fanno molte estorsioni dai carcerati, creandosi l'un l'altro priori in dette carceri, facendosi pagare l'olio per le lampade e facendosi dare altri illeciti pagamenti, facendo essi da padroni in dette carceri»” (27). E ancora: “Esiste nella Biblioteca Nazionale un documento curiosissimo intitolato: Relazione dello stato delle carceri della G. C. della Vicarìa di Napoli e delle mutazioni fatteci e mantenute sino al presente 1674 per mezzo della missione perpetua istituitavi dai PP. della Compagnia di Gesù. Si rileva dal rapporto «che nelle prigioni i furti erano tali, che appena entrato uno nelle carceri s'eran già venduti li vestiti e quel che è peggio si trovava spogliato senza accorgersene, e se ben s'accorgeva non poteva parlare per timore della vita, poiché con più facilità si facevano omicidi, avvelenazioni ec. dentro le carceri che fuori. E grandi erano i maltrattamenti che si facevano a quelli che venivano carcerati o per occasione di torgli qualche danaro sotto colore che ognuno, quale entra di nuovo carcerato, li facevano pagare la lampa, o sotto altro titolo che si tace per modestia»” (28). Commenta Monnier a proposito del fatto che nel 17° secolo non compare ancora la camorra: “Il nome di camorra non si incontra ne' documenti di quest'epoca; ma, se il nome non è ancora usato o almeno adottato nella prosa officiale e letteraria, si trova peraltro ne' malfattori di que' tempi la specialità de' reati, che distinguono la consorteria dai delinquenti comuni….Alcuni bandi d'Annese, di Toraldo, di Guisa promulgati durante la insurrezione del 1647 ci mostrano l'abitudine radicata di imporre tasse arbitrarie ai cittadini, e le continue estorsioni di questi bravi, cui ancora non si dava il nome di camorristi” (29). E conclude: “…le violenze e le estorsioni degli scellerati, che in questi giorni hanno afflitto le città meridionali, erano già ne' costumi di questi paesi fin dal regno degli Spagnuoli” (30).
    Isaia Sales è di parere diverso ma nel libro Le strade della violenza egli cita alcuni studiosi che sono convincenti quando scrivono che i lazzaroni sono stati effettivamente gli antenati dei camorristi. Scrive Sales “È nei lazzaroni che alcuni studiosi intravedono un fenomeno precamorristico, valutandolo come una vera e propria organizzazione di scopo dei plebei. A sostegno di tale ipotesi Mozzillo, per esempio, cita il duca di Guisa che in un passo dei suoi Memoires scrive che per lazzari bisognerebbe intendere esclusivamente gli appartenenti alla compagnia di Scipione Giannattasio, detto “Pione”, colui che sostituì Masaniello (dopo la sua uccisione) nella guida di un corpo speciale di popolani riconoscibile dal «vestito di tela bianca con i berrettini rossi, armati di uncini di ferro, come quelli che solevano usare per prendere i porci al mercato» [Atanasio Mozzillo, Aspetti della società popolare a Napoli tra Settecento e Ottocento, in idem (a cura di), La dorata menzogna: società popolare a Napoli tra Settecento e Ottocento, Napoli, Esi, 1975, p. 15]. L’ipotesi che la qualifica di lazzaro potesse identificarsi con un corpo armato, e in particolare con gli uomini del Pione, sarebbe suffragata da un mandato di pagamento intestato agli «illustrissimi signori lazzari» di cui dà notizia il Capecelatro. Sempre secondo Mozzillo il lazzaronismo sarebbe stato per tutto il Settecento «una forma armata organizzata sia pure labile, discontinua, embrionale». Infatti «bande organizzate di lazzari, con i relativi capilazzari, si riscontrano ogni qualvolta la plebe torna a manifestare la sua presenza tumultuosa nei momenti critici della città, come furono il 1764, il 1790, il 1799 [Mozzillo, cit. p. 16]” (31). Scrive ancora Sales: «Chi è convinto, invece, di una filiazione diretta è Carlo Del Balzo che nel 1885 nel libro Napoli e napoletani così scrive: “A poco a poco i meno cattivi scelsero uno di quei tanti mestieri che non hanno bisogno né di attività, né di intelligenza, e nemmeno di molta fatica, salvo quella di urlare per le vie, come di cenciaiuolo, saponaro, maruzzaro, pizzaiolo, franfelliccaro, acquaiuolo, carnacottaio, facchino, pescivendolo, ciabattino, lupinaio, pignuolaio, insomma uno di quei tanti mestieri ambulanti ed equivoci che si possono lasciare, ripigliare, mutare quando si vuole, e che, spesso, servono da coperchio a ogni specie di furfanteria. E i più forti, i più cattivi si ostinarono a non far nulla e incominciarono a farsi pagare un tanto su ciò che guadagnavano i più piccoli, i più deboli, tutta la caterva di venditori ambulanti. La cosa, estorsione violenta, ebbe un nome spagnolo: camorra; e camorristi i prepotenti. Insomma dai lazzaroni nacque la setta dei camorristi”. [Carlo Del Balzo, Napoli e i napoletani, Milano, Treves, 1885, p. 78]» (32).
    Una ricostruzione più completa della storia della violenza organizzata a Napoli prima della nascita della camorra si può trovare in un approfondito studio del giornalista-storico Gigi Di Fiore. Egli scrive: “Nella storia di Cesare Riccardi, si ritrovano interessanti particolari sulle origini della camorra, che nei due secoli di dominazione spagnola a Napoli ebbe degli antenati in gruppi dai vari nomi, i cui appartenenti avevano un'origine sociale che sarà conservata dalla malavita dei secoli successivi. Gruppi interessati anche agli stessi affari e interessi illeciti di epoche seguenti: gioco, prostituzione, estorsioni, sequestri” (33). Gigi Di Fiore parla della grossa presenza criminale a Napoli: “Alla fine del Seicento, i dati sulla delinquenza raggiunsero già numeri da grandi percentuali: 1338 banditi impiccati, 57 con la testa mozzata, 17 capi giustiziati, 131 affiliati uccisi, 913 condannati alla galera, 167 condannati ad andare in guerra. Compresi i 103 che avevano ottenuto accordi sulla pena (anche allora si usava una specie di patteggiamento, come prevede oggi il nostro codice di procedura penale), faceva la ragguardevole cifra di 3037 persone” (34). E poi ancora: “Nel 1550, quasi un secolo prima, sempre sotto la dominazione spagnola, erano state messe a morte dopo la condanna dei giudici ben diciottomila persone, accusate di atti di brigantaggio. Per colpire le azioni dei campeadores, i piccoli delinquenti di allora, per molto tempo venne imposto il coprifuoco notturno. Ma il gruppo di malavitosi più noto dell'epoca, veri e propri antesignani dei camorristi, erano i compagnoni. A volte si trovavano riuniti con il comune obiettivo di compiere un singolo delitto, o di concludere un affare illecito. Alleanze contingenti e strumentali di malfattori, legate da una comune occasione di guadagno. Altre volte, il sodalizio restava unito per più tempo. Di solito, si ritrovavano alla taverna del Crispano, nel borgo di Sant'Antonio Abate, dove questi tipi poco raccomandabili si mischiavano a prostitute e soldati spagnoli. Quando, il 9 aprile del 1620, il canonico Giulio Genoino venne nominato rappresentante del popolo, si circondò, quasi a protezione personale, di un certo numero di compagnoni. Anche allora, potere e malavita flirtavano” (35). Scrive sempre Gigi Di Fiore: “Già il viceré don Pietro da Toledo cercò di reprimere l'attività dei compagnoni, vietando con un bando il loro assembramento. Ma questi malavitosi crebbero ugualmente nel Seicento. Tra loro, vi era Onofrio Cafiero che vivea da compagnone di vilissimo valore, habile ha far male, di pessima vita, come sono tutti quelli che si chiamano volgarmente compagni. Attraverso i soliti giochi di potere, Genoino pensava di ingraziarsi il viceré, sfruttando i suoi buoni rapporti con la plebe napoletana e soprattutto con i compagnoni, pronti a farsi sobillare e a rimestare nel torbido, quando sorgevano occasioni per tumulti da cui poter trarre immediati vantaggi e benefici. Nel 1620, le agitazioni rientrarono subito. Non così fu nel 1647, con la cosiddetta rivoluzione di Masaniello, dietro cui agiva con astuzia Giulio Genoino, che lo manovrava. Già 114 anni prima, nel 1533, si erano verificati altri incidenti. Capopopolo era stato allora tal Fucillo di Micone, originario di Sorrento, sposato e con figli. La sua attività principale era quella di mercante di vini a Porta di Massa, nella zona di San Pietro Martire. Occasione per le proteste era stata la solita gabella che il popolo non accettava. Per la sua attività, Fucillo conosceva molti compagnoni, che lo seguirono nei tumulti pensando di trarne comunque vantaggi. Tra loro, alcuni nomi allora conosciuti: i fratelli Marcullo del quartiere Mercato, Aniello Lancella dei Grandilli, Baordo Agnese di Portanuova, Macedonio e i Taliergi del Porto, gli Squarcia, i Garofali e Giovanni dei Faielli di Mercogliano. I tumulti furono repressi, Fucillo giustiziato dopo essere stato torturato. Fallì l'assalto alle carceri della Vicaria, organizzato per liberare il capo. Invece, vennero quasi subito arrestati Antonio Cafusso e Alfonso Correaro, venditori di pane, il pittore Antonio Volpe con il genero Giovan Battista della Pagliara. Furono tutti torturati. Cafusso, solito pentito che non manca mai in queste occasioni, cedette e fece i nomi di Volpe e Pagliara, accusandoli di essere stati tra i capi della rivolta, responsabili di aver radunato gente casa per casa. I due vennero subito giustiziati. Insomma, negli incidenti era sempre presente un gran numero di compagnoni e l'eletto del popolo cercava subito il loro appoggio” (36). Gigi Di Fiore sostiene che anche Masaniello era in combutta con i cosiddetti compagnoni: “Naturalmente, anche Masaniello, il noto pescivendolo originario di Amalfi che divenne per pochi giorni una specie di re del popolo arrivando a parlare a tu per tu con il viceré, fu aiutato dai compagnoni. Anzi, Masaniello ne era amico, proveniva dal loro ambiente sociale, usava lo stesso dialetto, li frequentava nelle taverne del Mercato e di Pendino, dove trascorreva molto tempo giocando a carte sotto le tende o nelle baracche al largo di Castello. La rivolta contro la gabella dei frutti esplose il 7 luglio del 1647, al grido di Viva il re e muoja il mal governo. Un iniziale gruppo di 50 persone era guidato da Masaniello, ispirato da Giulio Genoino. Si sa come finì: Masaniello, stordito da pochi giorni di apparente potere, venne ucciso; la moglie Bernardina, che si arrangiava con piccoli contrabbandi, dopo la morte del marito invecchiò facendo la prostituta; Giulio Genoino accettò il compromesso con il viceré. I compagnoni, che avevano goduto di piccoli favori spacciandosi per padroni della città nei pochi giorni di potere di Masaniello, tornarono ai loro affari e alla loro vita di sempre. Sì, era già quella l'alba di scenari che contraddistingueranno nei secoli la vita della camorra napoletana” (37). Gigi Di Fiore scrive anche della presenza dei compagnoni all’interno delle carceri: “L'ingresso nella setta dei compagnoni era molto consistente nelle carceri. Le celle più affollate, dove venivano rinchiusi i criminali, erano quelle della Vicaria vecchia, a Castelcapuano, centro dove non solo si celebravano processi, ma venivano tenuti anche gli accusati. La struttura era su tre piani: in quello più alto venivano tenuti i nobili. La Casa della Penitenza era il carcere femminile. Le donne venivano vestite con un abito di lana e dovevano tenere i capelli tagliati quasi a zero. C'era divieto assoluto di contatto con le detenute, ma era una norma violata di continuo, specie dai carcerieri che approfittavano della loro posizione per soddisfare le loro voglie in cambio di agevolazioni e vitto. Il mangiare si doveva acquistare: chi possedeva denaro riusciva a sopravvivere e a procurarsi anche un giaciglio decente. I più deboli finivano tra le grinfie dei malavitosi associati, che li taglieggiavano e li facevano oggetto di mille violenze. Una piaga ben conosciuta in alto, tanto che il viceré, cardinale Granvela, il 27 settembre del 1573 firmò una prammatica, in cui minacciò l'impiccagione a chi veniva scoperto in carcere a chiedere tangenti ai detenuti. I delinquenti organizzati avevano escogitato un sistema per strappar denaro, che sarebbe stato poi ripreso anche dalla camorra dell'Ottocento: l'obolo richiesto per l'olio delle lampade. Si trattava di imposizioni di pagamenti, con la scusa di dover acquistare l'olio per alimentare le lampade accese che dovevano illuminare le immagini sacre. Fu allora che, quindi, si diffuse in carcere l'usanza di quella pretestuosa richiesta estorsiva” (38). Secondo Di Fiore: “Il capo dei delinquenti associati dietro le sbarre veniva chiamato priore. All'arrivo di un nuovo detenuto, prendeva informazioni, sondava la disponibilità economica dell'arrivato, mandava subito a chiedergli denaro. Controllava il gioco nei cameroni, intrecciava tacite alleanze con i carcerieri, che lo rispettavano per quieto vivere, ben sapendo che il priore era in grado di assicurare loro il controllo delle ribellioni e della violenza dietro le sbarre. Ai tempi di abate Cesare, il più famoso priore si chiamava Giovanni Battimelli. Era lui il potente «capostanza» della Vicaria alla fine del Seicento” (39). Di Fiore, infine, descrive la presenza della criminalità organizzata a Napoli alla fine del 18° secolo ed, in particolare, quella dei due capi Michele Marino e Antonio Avella: “Ma il periodo più intenso di quel secolo, in cui protagonista fu anche la numerosa plebe custode spesso di interessi illeciti, restò il 1799, con i sanguinosi eventi che portarono all'arrivo dei francesi, alla Repubblica Partenopea fino al ritorno del re Borbone ed al decennio francese. Fu allora, nelle giornate del gennaio 1799, dopo gli scontri contro i soldati di Championnet, che brillò per qualche mese la stella di Michele Marino. Cinque giorni di battaglia tra lazzari e francesi, duemila morti tra i napoletani. Alla fine, arrivò l'accordo ottenuto con le abili lusinghe del generale Championnet verso i due capi popolari. Proprio come aveva fatto un secolo prima Masaniello, i due capi plebei tennero sotto controllo le masse violente. Michele il pazzo girava per la città e spiegava in dialetto chi fossero e cosa volessero i francesi, mentre Antonio Avella venne ammesso al Comitato di Polizia della Municipalità provvisoria, dove presiedeva all'estrazione del lotto con i ministri camerali” (40).

    NOTE

    1) Commissione Antimafia, Bindi: "La camorra dato costitutivo di Napoli"; http://napoli.repubblica.it/cronaca/2015/0...mafia-122870649.
    2) Colangelo, camorra non in Dna napoletani; http://www.lagazzettadelmezzogiorno.it/new...napoletani.html.
    3) ANTONIO CARIOTI: Il germe medievale della camorra; La Lettura-Corriere della Sera, 3/1/2016
    4) AMEDEO FENIELLO: Napoli 1343; Mondadori, Milano, 2015, p. 9.
    5) AMEDEO FENIELLO, cit., p. 63.
    6) AMEDEO FENIELLO, cit., p. 73.
    7) AMEDEO FENIELLO, cit., pp. 91-92.
    8) AMEDEO FENIELLO, cit., p. 92.
    9) AMEDEO FENIELLO, cit., pp. 158-159.
    10) AMEDEO FENIELLO, cit., p. 228.
    11) BENEDETTO CROCE: La novella di Andreuccio da Perugia, in Storie e leggende napoletane; Adelphi, Milano, 1990, p. 74.
    12) AMEDEO FENIELLO, cit., p. 233.
    13) ISAIA SALES: Il risveglio della ragione; Il Mattino, 6/6/2016).
    14) Si veda il bellissimo libro dello psicologo canadese STEVEN PINKER: Il declino della violenza; Mondadori, 2013 (ed. or. The Better Angels of Our Nature, 2011).
    15) MARZIO BARBAGLI, ALESSANDRA MINELLO: L’inarrestabile declino degli omicidi; lavoce.info, 16/5/2017.
    16) GIOVANNI VITOLO: Dai seggi della nobiltà napoletana alla camorra. Una linea lunga e retta dal Medioevo ad oggi? A proposito di due recenti pubblicazioni, in “Studi storici”, n. 1, 2017, pp. 248-249.
    17) GIOVANNI VITOLO, cit., p. 249.
    18) GIOVANNI VITOLO, cit., p. 249.
    19) GIOVANNI VITOLO, cit., p. 250.
    20) GIOVANNI VITOLO, cit., p. 265.
    21) GIOVANNI VITOLO, cit., p. 265-266.
    22) GIOVANNI VTOLO, cit., p. 268.
    23) BENEDETTO CROCE: Il «paradiso abitato da diavoli» (Conferenza letta alla Società napoletana di storia patria nell’assemblea generale dei soci il 12 giugno 1923) in Un paradiso abitato dai diavoli; Adelphi, Milano, 2013, 4a ed., p. 11.
    24) BENEDETTO CROCE, cit., pp. 12-13.
    25) BENEDETTO CROCE, cit., p. 19.
    26) ISAIA SALES: Le strade della violenza; L’ancora del Mediterraneo, Napoli, 2006, pp. 10-11.
    27) MARC MONNIER: La camorra. Notizie storiche raccolte e documentate per cura di Marc Monnier; G. Barbera Editore, Firenze, 1863, 3a ed., p. 108.
    28) MARC MONNIER, cit., p. 109.
    29) MARC MONNIER, cit., p. 110.
    30) MARC MONNIER, cit., p. 112.
    31) ISAIA SALES, cit., p. 41.
    32) ISAIA SALES, cit., pp. 41-42.
    33) GIGI DI FIORE: La camorra e le sue storie; Utet, Torino, 2016, p. 17.
    34) GIGI DI FIORE, cit., p. 23.
    35) GIGI DI FIORE, cit., p. 24.
    36) GIGI DI FIORE, cit., pp. 24-25.
    37) GIGI DI FIORE, cit., pp. 25-26.
    38) GIGI DI FIORE, cit., pp. 26-27.
    39) GIGI DI FIORE, cit., p. 28.
    40) GIGI DI FIORE, cit., p. 31.
      Share  
     
    .