Replying to FRANCO PELELLA - Nuove riflessioni sul metodo lombrosiano (2010)

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  1. Posted 21/1/2022, 09:39
    Il metodo galileiano e il metodo indiziario

    In un recente articolo Daniele Velo Dalbrenta afferma che sarebbe opportuno comprendere “che cosa ha reso epocali le ricerche antropologico-criminali lombrosiane, pure del tutto prive di precedenti storici, facendone una vera e propria sistematica di discipline – scientifiche, para-scientifiche e umanistiche – le quali, prima di Lombroso, non avevano conosciuto alcun completo tentativo di collegamento tra loro. Che cosa, in definitiva, può spiegare la rivoluzione antropologico-criminale, il suo impatto, subitaneo e senza precedenti, sulla stessa percezione sociale del fenomeno criminale?” (1). La sua risposta è la seguente: “…il carattere rivoluzionario dell’Antropologia criminale risiede nel metodo; più precisamente, nel metodo scientifico, e, più precisamente ancora, nel metodo messo a punto in età moderna per le scienze sperimentali, il cosiddetto metodo galileiano…” (2). La mia convinzione è invece un’altra. Secondo me il carattere rivoluzionario dell’Antropologia criminale risiedeva nell’utilizzo contemporaneo non di uno ma di due metodi innovativi: il metodo galileiano e il metodo indiziario (3). E’ stato lo stesso Daniele Velo Dalbrenta a descrivere l’utilizzo di due metodi differenti da parte di Lombroso e dei suoi allievi considerandoli, impropriamente, come un metodo unico. Dapprima egli ha scritto che “…il metodo galileiano veniva essenzialmente a consistere nell’osservazione e descrizione del fenomeno delinquenziale, il quale, rapportato immediatamente alla persona del delinquente che vi aveva dato corpo, veniva trasposto entro il mondo delle cifre, e cioè sottoposto a misurazione, classificazione, riduzione statistica mediante i dati ricavati dagli appositi strumenti di precisione” (4). Subito dopo ha precisato che Lombroso, affiancato da uno stuolo di collaboratori “…bazzicò carceri mandamentali e manicomi criminali raffrontando le risultanze emerse su organi, funzionalità, proporzioni, alterazioni fisiologiche, malformazioni e scompensi vari, traumi menomazioni, ferite, ecc., raccogliendo corpi di reato e oggetti vari (scritti, disegni, graffiti, oggetti, manufatti, suppellettili, decorazioni ecc.), ritraendo volti, tatuaggi, schemi di andature e quanto d’altro. Per annotare, confrontare, catalogare scrupolosamente tutto, ma proprio tutto il possibile” (5).
    I due metodi avevano una natura diversa l’uno dall’altro. Uno si può definire di tipo verticale in quanto era volto a studiare in modo approfondito il corpo del delinquente mediante una serie di dati e di osservazioni raccolte attraverso l’utilizzo di strumenti di misurazione vari. L’altro si può definire di tipo orizzontale in quanto era volto a raccogliere tutte le informazioni possibili sulla figura del delinquente utilizzando le fonti più svariate ma esterne al suo corpo. Vivendo in un’epoca dominata da una cultura idealistica, nella quale il pensiero scientifico faceva molta fatica ad affermarsi, è indubbio che l’utilizzo del “metodo galileiano” da parte di Lombroso (mediante la misurazione e la classificazione di una miriade di corpi) costituiva un elemento di grossa innovazione nella ricerca culturale. Ma la mia opinione è che tra i due metodi il più innovativo era il secondo perché ci sono pochissimi casi nella storia di un utilizzo così costante e sistematico del metodo indiziario nella ricerca culturale. Cesare Lombroso può essere considerato un vero e proprio precursore (6). Probabilmente il merito principale di Lombroso è stato quello di aver utilizzato un approccio di tipo indiziario che era globale perché lo portava a ricavare i segni per giungere a definire la psicologia del deviante da ogni fonte possibile, non solo dal corpo umano. L’utilizzo di tale metodo lo portava talvolta ad intuire delle analogie, delle connessioni tra le cose che erano profondamente innovative anche se non gli era possibile analizzare compiutamente tutte le relazioni che intuiva; il fatto, però, di rendere esplicite molte delle sue intuizioni, senza sostenerle con dati di fatto concreti, dava l’impressione a molti che ci fosse una notevole dose di approssimazione nel suo lavoro. Ma ciò si spiega considerando che egli, attraverso l’utilizzo del paradigma indiziario, intendeva pervenire alla scoperta del fatto nuovo, nascosto, non ancora codificato, evitando di passare attraverso la seriosità del linguaggio scientifico ufficiale, dando cioè ai propri argomenti di studio «una forma, che meno risentisse di quella burbanza accademica, che cerca nella noia l’apparenza della gravità» (7). Alla base del metodo lombrosiano c’era la convinzione, oggi riconosciuta da molti perfettamente legittima, che per giungere al contesto della scoperta, nell’ambito del lavoro scientifico, non bisogna necessariamente mantenersi all’interno di confini metodologici e disciplinari ben prefissati.

    L'Antropologia criminale: una disciplina indiziaria

    Si pone, però, un problema. Poteva essere il primo metodo definito effettivamente galileiano, nel senso che i risultati scientifici raggiunti studiando ogni singolo delinquente potevano essere generalizzati? Se si tiene presente quanto ha autorevolmente sostenuto Carlo Ginzburg ciò non era possibile. Ginzburg, a proposito di alcune discipline (critica d’arte, psicoanalisi, diritto, medicina, storiografia, filologia, ecc.) ha scritto che “….è chiaro che il gruppo di discipline che abbiamo chiamato indiziarie (medicina compresa) non rientra affatto nei criteri di scientificità desumibili dal paradigma galileiano. Si tratta infatti di discipline eminentemente qualitative, che hanno per oggetto casi, situazioni e documenti individuali, in quanto individuali, e proprio per questo raggiungono risultati che hanno un margine ineliminabile di aleatorietà: basta pensare al peso delle congetture (il termine stesso è di origine divinatoria) nella medicina o nella filologia, oltre che nella mantica. Tutt’altro carattere aveva la scienza galileiana, che avrebbe potuto far proprio il motto scolastico individuum est ineffabile, di ciò che è individuale non si può parlare” (8). E l’Antropologia criminale rientra sicuramente tra le discipline definibili “indiziarie” secondo i criteri utilizzati da Ginzburg. Molti dei risultati aleatori raggiunti da Lombroso nel corso delle sue ricerche si spiegano con la probabilmente ineliminabile contraddizione tra la pretesa generalizzabilità dei risultati conoscitivi raggiunti studiando il corpo e la psicologia dei delinquenti e la singolarità degli individui studiati. Questo, probabilmente, è stato il suo principale errore. Ma ciò vuol dire che le conoscenze ottenute da Lombroso sono da considerare inutilizzabili? Se nel fare ciò si utilizza il criterio del metodo galileiano sicuramente esse non sono utili. Ma se i criteri di giudizio sono altri il discorso cambia. Lo stesso Carlo Ginzburg ha sostenuto che “L’indirizzo quantitativo e antiantropocentrico delle scienze della natura da Galileo in poi ha posto le scienze umane in uno spiacevole dilemma: o assumere uno statuto scientifico debole per arrivare a risultati rilevanti, o assumere uno statuto scientifico forte per arrivare a risultati di scarso rilievo” (9). L’antropologia criminale mi sembra un tipico caso di scienza umana con uno statuto scientifico debole che, però, è pervenuta a risultati conoscitivi rilevanti. La convinzione di fondo di Lombroso era che i delinquenti (ma anche i malati mentali e i geni) avevano una loro psicologia particolare. Tale convinzione era sostenuta da miriadi di osservazioni fatte nei secoli sia da studiosi che da uomini comuni, sia dalla cultura ufficiale che dalla cultura popolare, alle quali egli attribuiva una quasi pari dignità. Per dimostrare che i delinquenti, i malati mentali e i geni avevano una loro specifica psicologia egli decise di ricorrere ai due suddetti metodi. Lombroso (contagiato dall’ottimismo positivistico relativo ai risultati raggiungibili dalla scienza dell’epoca in cui visse) era convinto, sbagliando, che, in questo modo, avrebbe raggiunto risultati conoscitivi che erano totalmente generalizzabili. Ciò non toglie, però, che i delinquenti, i malati mentali e i geni hanno alcune caratteristiche psico-fisiche proprie che sono generalizzabili e che la conoscenza approfondita di queste caratteristiche può rivelarsi molto utile. E Lombroso è stato, probabilmente, colui il quale è storicamente pervenuto alla conoscenza più approfondita di queste caratteristiche.

    Cesare Lombroso: un precursore

    A proposito del metodo lombrosiano Patrizia Guarnieri ha scritto che "Nel suo famoso saggio Spie, Carlo Ginzburg non menziona Lombroso ma il suo nome potrebbe ben stare accanto a quelli di Giovanni Morelli, di Arthur Conan Doyle e di Sigmund Freud - ovviamente con le rispettive dovute differenze -, anche riguardo alla persistente contrapposizione tra razionalismo e irrazionalismo e ad altri connessi antagonismi. Una connessione diretta di Lombroso con il critico d'arte, che pubblicava negli stessi anni in cui usciva L'uomo delinquente, non è stata documentata. Risulta invece certo che il creatore di Sherlock Holmes conoscesse gli scritti lombrosiani, cui si ispirarono anche Bram Stoker per Dracula e altri scrittori dell'epoca. In quanto a Freud, egli citò Lombroso in due lettere private e mai nei suoi lavori. In tale disinteresse fu ricambiato. Tuttavia, fra tutti loro l'apparentamento di certi caratteristici modi di descrivere, osservare, analizzare è evidente; e l'insorgenza simultanea in luoghi diversi di uno stesso paradigma, di simili modelli e idee, di analoghe esigenze scientifiche - più volte sottolineata dagli storici delle scienze, di contro all'ormai demitizzato progresso scientifico lineare - ci autorizza a prendere in considerazione anche Lombroso, fra coloro che resero operante il paradigma indiziario nelle scienze umane di fine Ottocento" (10). Queste riflessioni sono assai importanti ma esse sono state, nella sostanza, già anticipate dal sottoscritto in un articolo scritto nel 1987. In questo articolo, dopo aver citato Spie, ho scritto che "Lombroso fu, notoriamente, il fondatore dell'Antropologia criminale ma, al di là degli studi sul deviante, ciò che egli, probabilmente, introdusse di maggiormente innovativo in campo scientifico fu il suo particolare utilizzo di un metodo di approccio alla conoscenza come il paradigma indiziario. Fu tale il suo apporto in questo senso da farlo sicuramente inserire tra i maggiori sostenitori ottecenteschi dell'utilità di questo paradigma e da farlo considerare, anzi, un precursore per l'ampiezza e l'originalità della sua ricerca" (11).
    Importanti sono anche le seguenti affermazioni di Patrizia Guarnieri: "I tatuaggi, gli amuleti, la grafia, il linguaggio, i manufatti, per esempio, uscivano dai repertori della semeiotica medica, e ancora di più dal modello anatomo-patologico che esclusivamente viene attribuito a Lombroso, dimenticandone l'orientamento morfologico; così come non vi rientravano le storie di vita cui pure egli prestava una certa attenzione. Le sue osservazioni eccedevano sempre dai ristretti modelli del positivismo riduzionista e determinista; debordavano dalla programmata quantificazione per la quale è rimasto fin troppo noto. Interessavano comunque tracce e segni, indizi di qualunque tipo, cui attribuire significato. Quanto distingueva l'esperto era la capacità interpretativa di dare significato a dati che ai più sembravano irrilevanti, anche se il suo metodo poteva apparire «meccanico, grossolanamente positivistico» - lo si diceva di Lombroso quanto di Morelli - specie quando esso si appuntava su quanto era stato sempre concepito come un prodotto dello spirito (le opere d'arte, anche se false), o della mente e della morale (le azioni umane, anche se devianti)" (12). Anche questo discorso è stato, nella sostanza, anticipato dal sottoscritto nel suddetto articolo dove si sosteneva che "....dietro l'insistenza lombrosiana sull'importanza della misurazione antropometrica c'era, probabilmente, soprattutto la necessità di rendere accettabile, fornendo una base quantitativa di dati che fosse immediatamente verificabile, un utilizzo del paradigma indiziario che costituiva per lui un approccio globale alla conoscenza" (13) e che "....il merito principale di Lombroso è stato quello di aver utilizzato un approccio di tipo indiziario che era globale perchè lo portava a ricavare i segni per giungere a definire la psicologia del deviante da ogni fonte possibile, non solo dal corpo umano" (14).

    L'utilizzo della fisiognomica

    Anche Piero Bianucci si è occupato del metodo lombrosiano. A tale proposito egli ha scritto che "...l'errore più grave si annida nel metodo: la tendenza lombrosiana a rimuovere i dati scomodi selezionando solo quelli favorevoli alla propria tesi…” (15). Questa è un’accusa inedita, non formulata da altri critici (tra l’altro non viene spiegato perché quest’errore si anniderebbe nel metodo). Se questo fosse vero bisognerebbe ammettere che Lombroso era affetto da disonestà intellettuale mentre tutti gli studiosi, anche quelli maggiormente critici nei suoi confronti, hanno dovuto riconoscere la sua sostanziale onestà. Si veda quanto scritto, a questo proposito, da Mario Portigliatti Barbos: “Con indubbi gravi limiti (misurazioni scarsamente definite; deduzioni ingiustificate; gruppi di controllo inadeguati; esemplificazioni analogiche ed aneddotiche), ma mostrando sostanziale onestà nella sua ricerca del vero, Lombroso creò le basi di un sistema” (16).
    Ha affermato ancora Bianucci che: “Due aggettivi gli scienziati italiani hanno dato al mondo: galileiano e lombrosiano. Derivano da personalità incomparabili e identificano paradigmi altrettanto disuguali. «Galileiano» suggerisce la paternità nobile del metodo scientifico tuttora riconosciuto come la Carta costituzionale della Ragione. Lombroso rimanda a una caricatura della scienza positivista, oppure, in una prospettiva più angusta, si associa alla fisiognomica, la pseudoscienza che vorrebbe trarre dall’aspetto fisico connotati psicologici e morali” (17). Dire che il termine “lombrosiano” rimanda ad una caricatura della scienza positivista mi sembra veramente eccessivo. Ancora Mario Portigliatti Barbos ha opportunamente scritto che “….l’apporto della scuola criminologica italiana appare coerente e largamente correlato con lo stato delle conoscenze del tempo, sì da collocarsi autonomamente all’incrocio di varie discipline, e da portare un contributo rilevante nella storia del positivismo italiano, soprattutto sotto forma di una semeiologia, intesa ad identificare il deviante prima di sottoporlo al controllo sociale ed istituzionale. E’ un apporto che si propone come scientifico, dal momento che parte da precise premesse biomediche e presenta l’uomo non solo, e non tanto, come prodotto naturale legato intimamente agli altri organismi che lo precedono nella scala evolutiva ma anche come prodotto storico, suscettibile cioè di modellamento ad opera dell’ambiente da lui stesso creato” (18). Ma dire anche che l’aggettivo “lombrosiano” si associa ad una pseudoscienza come la fisiognomica mi sembra per lo meno riduttivo. Il problema è che le conoscenze raggiunte attraverso il suo utilizzo non sono pienamente verificabili dal punto di vista scientifico, almeno se ci si mantiene all’interno dei canoni classici della scientificità. Ma se si prova ad andare oltre questa visione della scientificità si può scoprire che la fisiognomica, pur non potendo essere considerata una scienza nel vero senso del termine, ha dato contributi importanti alla conoscenza. Si veda quanto sostenuto a questo proposito da Carlo Ginzburg: “L’antica fisiognomica era imperniata sulla firāsa: nozione complessa, che designava in generale la capacità di passare in maniera immediata dal noto all’ignoto, sulla base di indizi. Il termine, tratto dal vocabolario dei sufi, veniva usato per designare sia le intuizioni mistiche, sia forme di penetrazione e di sagacia come quelle attribuite ai figli del re di Serendippo. In questa seconda accezione la firāsa non è altro che l’organo del sapere indiziario. Questa «intuizione bassa» è radicata nei sensi (pur scavalcandoli) – e in quanto tale non ha nulla a che vedere con l’intuizione sovrasensibile dei vari irrazionalismi otto e novecenteschi. E’ diffusa in tutto il mondo, senza limiti geografici, storici, etnici, sessuali o di classe – e quindi è lontanissima da ogni forma di conoscenza superiore, privilegio di pochi eletti” (19).
    L'utilizzo dell'induzione

    Ancora a proposito del metodo lombrosiano Marc Renneville ha sostenuto che: “Il racconto di Lombroso è innegabilmente «realista» per la sua epoca, ma il modello di razionalità scientifica al quale si conforma è ormai rifiutato dagli storici. Nessuno pensa più che lo sviluppo della scienza sia basato essenzialmente sull’induzione (20)". Ma non è vero che Lombroso pensava che lo sviluppo della scienza fosse basato essenzialmente sull’induzione. Marc Renneville nello stesso articolo ha scritto cose diverse di Lombroso: “Lombroso, per calcolo strategico o per conoscenza scientifica, non si descriveva sotto i tratti di un induzionista ingenuo. Se egli rifiutava esplicitamente ogni concezione deduttiva del processo scientifico, riconosceva però che l’induzione da sola non bastava a creare una teoria soddisfacente. Per Lombroso….la scienza s’inseriva in un processo storico che procedeva attraverso l’accumulazione delle osservazioni e la modificazione delle ipotesi iniziali” (21). Lombroso pensava, quindi, che l'induzione era il momento iniziale e imprescindibile della ricerca scientifica. La sua particolarità era il calcare molto, forse troppo, la mano sull’importanza dell’induzione. Ma egli riconosceva che essa non bastava perché doveva essere supportata da osservazioni e misurazioni adeguate, altrimenti non avrebbe avuto alcun valore. Mi sembra che questo modello di ricerca, se rigorosamente perseguito, possa essere sostanzialmente accettato perché rientra nei canoni della razionalità oggi considerati validi dalla comunità scientifica.

    I palimsesti del carcere

    Secondo Renzo Villa il lavoro di Lombroso è “…il quotidiano lavoro del frenologo forense, dell’alienista appassionato a ogni caso di studio, anche dello straordinario raccoglitore di ogni reperto utile, dal suo Museo ai Palimsesti del carcere, l’opera sua più singolare in cui si limita a classificare, raccogliendo un campionario tanto prezioso quanto poco affidabile…” (22). Ma il campionario di materiali raccolti da Lombroso e descritti nei Palimsesti del carcere non deve essere considerato poco affidabile. Esso poteva rivelarsi utile come punto di partenza per un approfondimento della psicologia delinquenziale. La mia opinione è che le numerose scritte dei carcerati raccolte dai muri, dalle lettere, dai bordi dei libri, ecc., confrontate con varie scritte raccolte fuori dal carcere, potevano effettivamente consentire di individuare bene le differenze tra la psicologia dei carcerati e quella delle persone esterne al carcere. Si veda quanto scriveva lo stesso Lombroso alla fine di quasi trecento pagine di analisi e di descrizione approfondita di “palinsesti” assai vari per commentare il significato delle scritte raccolte: “Nel confronto tra i criminali e i liberi, per non dire degli onesti, se si vede la vanità, l’impazienza, l’ira, l’incostanza, l’invidia, il giuoco, l’ozio pressappoco al medesimo livello, vediamo poi raddoppiare nei criminali l’ironia,la vendetta, l’impazienza, l’astuzia e la libidine, l’odio, l’ingiustizia, eccetera, quintuplicare le sozzure: predominare, quasi isolate, la cupidigia, la ferocia, il cinismo, la superstizione, la diffidenza. Viceversa quasi tutte le buone tendenze sono in minoranza, per esempio, la previdenza appare 8 volte minore, la benevolenza 4 volte più scarsa. Il rimorso, l’amore, la rassegnazione…vanno alla metà. Ma non è tanto nella proporzione, quanto nell’intensità, che si direbbe perfino pazzesca, della ferocia, della vanità, e specialmente della vanità del delitto, che spicca l’enorme differenza tra il carcere e fuori” (23).
    Pierpaolo Leschiutta ha descritto accuratamente il contenuto dei Palimsesti del carcere, una delle opere più importanti e originali di Lombroso. Egli ha affermato che: “Due campagne di raccolta successive a distanza di quattro anni una dall’altra, tra il 1880 e il 1885, in tre carceri piemontesi la prima, nel solo carcere torinese la seconda, permettono a Lombroso di raccogliere 809 scritti di carcerati, 299 incisi o scritti sulle pareti e 510 sui margini bianchi di libri delle biblioteche carcerarie. Una mole documentaria consistente, che Lombroso raggruppa secondo la sua interpretazione del messaggio esplicito e confronta con scritti e graffiti raccolti all’esterno delle carceri, sui muri delle case, sulle pareti delle pubbliche latrine [566] e sui libri delle biblioteche di Torino, Bologna e Roma [663]. Motti, liriche, poesie, satire, imprecazioni, saluti e comunicazioni, minacce e sciarade, rebus e commenti al libro sul quale si scrive, idee politiche e frasi oscene. Scritti che vogliono comunicare la propria storia e la propria presenza nel carcere o indicano ai compagni come comportarsi nelle udienze del tribunale; scritti sulla religione e sulla morale, ma anche sui desideri e sui ricordi, sulle speranze e sui progetti una volta fuori dalla prigione. Un materiale difforme, incoercibile, come riconosce lo stesso Lombroso, che egualmente lo utilizza riducendo lo scritto a oggetto e dato statistico, forzandolo nella direzione della propria tesi” (24). Secondo me il termine “incoercibile” usato da Lombroso non vuol dire che il materiale raccolto non poteva consentire una lettura della psicologia del delinquente ma solo che esso era di provenienza molto eterogenea. Il campione di scritti raccolti era, comunque, numericamente e qualitativamente significativo. Sarebbe stato troppo contraddittorio dichiarare praticamente inutilizzabili i dati raccolti e poi utilizzarli comunque. Lombroso ha affermato con chiarezza che era convinto dell’utilità di questi scritti: “….a me venne in mente che questi veri palimsesti del carcere….potesse[ro] fornirci preziose indicazioni sulla tempra vera, psicologica, di questa nuova, infelicissima razza, che vive accanto a noi senza che noi ci accorgiamo punto dei caratteri che la differenziano” (25).
    Ha scritto ancora Leschiutta che: “Le incisioni sulle terracotte e le scritte sulle pareti delle celle appaiono esemplificare i primi rudimentali sforzi di avvicinamento alla forma scritta della lingua italiana da parte di individui dialettofoni. Le frasi sono composte da parole in dialetto, intramezzate da parole italiane la cui ortografia risente dell’articolazione della pronuncia dialettale che le scandisce….Proprio in questo è il loro pregio e la loro novità rispetto sia alle raccolte dei folcloristi sia dei dialettologi. I Palimsesti del carcere di Lombroso ci presentano in nuce alcuni tratti di quel lento e laborioso passaggio tra consuetudine orale e necessità della scrittura, permettendoci di sondare un momento di straordinaria rilevanza culturale: l’ingresso nella scrittura, nel «dominio di riserva del prete e del re», di chi fino ad allora ne era stato escluso” (26). Rimango convinto che il motivo principale dell’importanza dei Palimsesti sia la possibilità che essi hanno offerto di indagare sulla psicologia dei delinquenti. Ma seppure avesse ragione Leschiutta nel considerare di maggior rilievo la possibilità che essi offrono di monitorare il passaggio dalla “consuetudine orale alla necessità della scrittura” da parte di persone detenute si tratterebbe comunque di una operazione di grande valore culturale.

    Lo studio dei tatuaggi

    Parlando dello studio dei tatuaggi da parte di Lombroso Pierpaolo Leschiutta ha sostenuto che: “La molteplicità dei tatuaggi lo interessa come dato statistico, nel mito dell’oggettività del dato numerico le singole icone saranno suddivise nelle categorie dei tatuaggi religiosi, d’amore, osceni, simbolici, ecc. modalità tanto vaghe e generiche ed estranee all’oggetto «tatuaggio» da non riuscire a fornire una griglia interpretativa di una qualche utilità. Non il tatuaggio ma il Tatuato interessa Lombroso, non l’analisi del segno ma l’individuazione delle «ragioni per cui si mantenne nelle classi basse e più nei criminali un uso sì poco vantaggioso, e alle volte di tanto danno» (27). Ed ecco Lombroso mettere a fuoco le presunte «cause» che indurrebbero a tatuarsi: sono a) di natura e provenienza religiosa; b) l’imitazione; c) lo spirito di vendetta; d) l’ozio e l’inattività; e) la vanità, f) lo spirito di corpo; g) la funzione mnemonica; h) le passioni erotiche (28). Tassonomia che vuole selezionare i comportamenti ascrivendone le cause a motivi di ordine psicologico, ma che appare più che altro un decalogo dei disvalori dominanti nella società italiana di fine secolo. Categorie troppo fragili per riuscire a contenere la complessità di una pratica culturale come quella del tatuaggio che non è riducibile alla sola dimensione dell’individuale e dello psicologico. La complessità di alcune forme di religiosità popolare non può essere ridotta a sola superstizione o a comportamenti ipocriti utilizzati per coprire impulsi cattivi e malvagi. Il tatuaggio, dove appare indicata la volontà di vendicarsi di chi ha tradito o ha fatto la spia, non è solo il sintomo di un irrefrenabile impulso personale: è un comportamento obbligato dal «codice dell’onore»; l’imitazione è anche processo di circolazione culturale che si attiva solo in determinate condizioni; lo spirito di corpo rimanda alla solidarietà di gruppo e alle norme, valori, credenze e regole che danno senso all’appartenervi” (29).
    Non sono d’accordo con Leschiutta; i tatuaggi possono essere utili per capire la personalità del tatuato. Non è vero che le cause dei tatuaggi erano più che altro un decalogo dei disvalori dominanti nella società italiana di fine secolo; non si possono attribuire a tutte le classi sociali lo spirito di vendetta, l’ozio e l’inattività, la vanità e le passioni erotiche. Queste sono motivazioni psicologiche che sembrano specifiche delle categorie sociali alle quali appartengono, di solito, i delinquenti. Non si capisce, poi, come Leschiutta possa accusare Lombroso di avere considerato i tatuaggi solo come sintomi di irrefrenabili impulsi personali e non anche come comportamenti obbligati da un codice d’onore. Inserendo tra le cause che inducono a tatuarsi anche l’imitazione e lo spirito di corpo Lombroso ha sicuramente tenuto conto del codice d’onore che, in certi casi, obbliga a tenere determinati comportamenti.
    Secondo Leschiutta: “L’imitazione, come principio esplicativo dei fatti sociali, è una teoria che circolava largamente nel linguaggio antropologico e sociologico di quegli anni e che Lombroso utilizzerà in modo riduttivo, riducendola a mera riproduzione passiva e individuale di modelli di comportamenti. Sarà una delle poche parti de L’uomo delinquente a non essere modificata nelle successive edizioni del libro, nonostante l’ampio dibattito che seguì la pubblicazione del volume di Gabriel Tarde, Les Lois de l’imitation e i successivi lavori del lombrosiano Scipio Sighele e di Gustave Le Bon sulla psicologia delle folle e su La folla delinquente. Accettare la tesi di Gabriel Tarde che individuava l’essenza del sociale nel fatto comunicativo e la riproduzione per imitazione come cinghia di trasmissione dei comportamenti collettivi, avrebbe comportato un ripensamento dell’intero quadro teorico. La genesi della criminalità avrebbe dovuto essere ricercata nel sociale e non nella natura dell’individuo criminale” (30). E’ strano che Leschiutta formuli queste accuse a Lombroso perchè egli, nell’indicare le cause dei tatuaggi dei delinquenti, ha individuato sia cause di natura psicologica sia cause di natura sociale; evidentemente considerava attivi tutti e due i tipi di cause nel comportamento dell’uomo delinquente. Questo, in effetti, è lo stesso procedimento seguito nell’individuare le cause della delinquenza fin dalla prima edizione de L’uomo delinquente.
    Scrive infine Leschiutta: “In sostanza, Lombroso ripropone continuamente gli elementi caratterizzanti il proprio quadro teorico, ma anche il suo stereotipo, sia del criminale che del selvaggio. Il discorso diviene in questo modo circolare e tautologico, autoesplicativo, e pare non consentire una lettura dei fatti alternativa, se non a rischio di porre sotto accusa tutta l’intelaiatura teorica che ne è alla base. Lo sforzo interpretativo diviene tutto interno al discorso, la verifica limitata a un aumento spropositato del materiale raccolto, una ricerca di compensazione, attraverso la quantità dei dati accumulati, alla sostanziale debolezza teorica dell’analisi. L’unico approfondimento è nella classificazione del materiale raccolto. Si cercano e si trovano categorie in cui porre segni ritenuti omogenei, così come avviene nelle analisi dei gerghi, dei palinsesti, dei prodotti artistici. Ma l’elemento unificante, la sintesi, l’omogeneità del significato nella variabilità dei significanti, non inducono Lombroso alla ricerca delle ragioni storiche e culturali che possono averli generati. L’unificazione e la sintesi è nell’atavismo, nel riemergere nel criminale reo-nato delle caratteristiche e dei comportamenti «normali» nei selvaggi e nei nostri antenati prima dell’avvento della civiltà” (31). E ancora: “Il tatuaggio turba, incuriosisce, infastidisce, pone problemi sulla liceità di un uso del corpo irrispettoso della sua sacralità. L’immaginario della borghesia ne è affascinato e scandalizzato. Lombroso ne coglie la potenzialità evocativa e ne fa oggetto di studio. Solo valutando questo incontro può comprendersi le ragioni che hanno portato, nei trenta anni a cavallo tra il XIX e il XX secolo, a scrivere centinaia di pagine sui tatuaggi, travestendo un luogo dell’immaginario in un oggetto di studio che si voleva scientifico” (32). A me sembra, invece, che si possa sostanzialmente condividere l’analisi che Lombroso faceva dei tatuaggi dei delinquenti. Non ci sono ragioni storiche e sociali che motivano le caratteristiche che i tatuaggi assumevano nei delinquenti. Ci sono solo ragioni psicologiche. E Lombroso, attraverso i tatuaggi e altri segni presenti sul corpo dei delinquenti, ha fatto una accurato studio psicologico degli stessi. Il corpo dei delinquenti, quindi, non era un luogo dell’immaginario ma un luogo concreto con segni concreti che, ad un’attenta lettura, potevano rivelare molte informazioni utili sulla psicologia di queste persone.

    NOTE

    1) DANIELE VELO DALBRENTA: Tesi e malintesi de L’uomo delinquente. Un punto di vista filosofico-giuridico in SILVANO MONTALDO – PAOLO TAPPERO (a cura di): Cesare Lombroso cento anni dopo; Utet, Torino, 2009, p. 21.
    2) DANIELE VELO DALBRENTA: Tesi e malintesi de L’uomo delinquente, cit., p. 21.
    3) Per una storia del metodo indiziario si veda il famoso saggio di CARLO GINZBURG: Spie. Radici di un paradigma indiziario, in AA. VV.: Crisi della ragione; Einaudi, Torino, 1979.
    4) DANIELE VELO DALBRENTA: Tesi e malintesi de L’uomo delinquente, cit., p. 22.
    5) DANIELE VELO DALBRENTA: Tesi e malintesi de L’uomo delinquente, cit., p. 22.
    6) Si veda FRANCO PELELLA: Cesare Lombroso: un precursore nell’utilizzo del paradigma indiziario, in “Nuovi Argomenti”, n. 22, 1987.
    7) CESARE LOMBROSO: Pensieri e meteore; Dumolard, Milano, 1878, p. X.
    8) CARLO GINZBURG: Spie. Radici di un paradigma indiziario, cit., p. 71.
    9) CARLO GINZBURG: Spie. Radici di un paradigma indiziario, cit., p. 92.
    10) PATRIZIA GUARNIERI: Lombroso e la scienza positiva, in SILVANO MONTALDO – PAOLO TAPPERO (a cura di): Cesare Lombroso cento anni dopo; Utet, Torino, 2009, p. 143.
    11) FRANCO PELELLA: Cesare Lombroso: un precursore nell’utilizzo del paradigma indiziario, cit., p.124.
    12) PATRIZIA GUARNIERI: Lombroso e la scienza positiva, cit. p. 146.
    13) FRANCO PELELLA: Cesare Lombroso: un precursore nell’utilizzo del paradigma indiziario, cit., p.125.
    14) FRANCO PELELLA: Cesare Lombroso: un precursore nell’utilizzo del paradigma indiziario, cit., p.125.
    15) PIERO BIANUCCI: Orrori ed errori. La lezione della scienza che sbaglia, in SILVANO MONTALDO – PAOLO TAPPERO: Il Museo di Antropologia criminale «Cesare Lombroso», Utet, Torino, 2009, p.62.
    16) MARIO PORTIGLIATTI BARBOS: Medicina ed antropologia criminale nella cultura positivista, in EMILIO R. PAPA (a cura di): Il positivismo e la cultura italiana; Franco Angeli, Milano, 1985, p. 440.
    17) PIERO BIANUCCI: Orrori ed errori. La lezione della scienza che sbaglia, cit., p. 63.
    18) MARIO PORTIGLIATTI BARBOS: Medicina ed antropologia criminale nella cultura positivista, cit. p. 442-443.
    19) CARLO GINZBURG: Spie. Radici di un paradigma indiziario, cit., pp. 92-93.
    20) MARC RENNEVILLE: Un cranio che fa luce? Il racconto della scoperta dell’atavismo criminale, in SILVANO MONTALDO – PAOLO TAPPERO: Il Museo di Antropologia criminale «Cesare Lombroso», cit., p. 112.
    21) MARC RENNEVILLE: Un cranio che fa luce? Il racconto della scoperta dell’atavismo criminale, cit., pp. 110-111.
    22) RENZO VILLA: Il «metodo sperimentale clinico»: Cesare Lombroso scienziato, e romanziere, in SILVANO MONTALDO – PAOLO TAPPERO (a cura di): Cesare Lombroso cento anni dopo, cit., p. 135.
    23) CESARE LOMBROSO: Palimsesti del carcere; Fratelli Bocca Editori, Torino, 1888, p. 282.
    24) PIERPAOLO LESCHIUTTA: Le scritture, i segni, i manufatti del carcere, in SILVANO MONTALDO – PAOLO TAPPERO (a cura di): Il Museo di Antropologia criminale «Cesare Lombroso», cit., pp. 171-172.
    25) CESARE LOMBROSO: Palimsesti del carcere, cit., p. 6.
    26) PIERPAOLO LESCHIUTTA: Le scritture, i segni, i manufatti del carcere, cit., pp. 174-175.
    27) CESARE LOMBROSO: L’uomo delinquente studiato in rapporto all’antropologia, alla medicina legale e alle discipline carcerarie; Hoepli, Milano, 1876, 1a ed., p. 367.
    28) CESARE LOMBROSO: L’uomo delinquente, cit., pp. 336-79.
    29) PIERPAOLO LESCHIUTTA: Lombroso e i tatuaggi, in SILVANO MONTALDO – PAOLO TAPPERO (a cura di): Il Museo di Antropologia criminale «Cesare Lombroso», cit., pp. 188-189.
    30) PIERPAOLO LESCHIUTTA: Lombroso e i tatuaggi, cit., p. 190.
    31) PIERPAOLO LESCHIUTTA: Lombroso e i tatuaggi, cit., p. 192.
    32) PIERPAOLO LESCHIUTTA: Lombroso e i tatuaggi, cit., p. 192.

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