Replying to Recensione del libro di MARCO VIGNA: Brigantaggio italiano. Considerazioni e studi nell’Italia unita; Interlinea, Novara, 2020

  • Create account

    • Nickname:
  • Enter your Post

    •              
           
       
      FFUpload  Huppy Pick colour  HTML Editor  Help
      .
    •      
       
      Clickable Smilies    Show All
      .
  • Clickable Smilies

    • :huh:^_^:o:;):P:D:lol::B)::rolleyes:-_-<_<:)
      :wub::angry::(:unsure::wacko::blink::ph34r::alienff::cry::sick::shifty::woot:
      <3:XD:*_*:];P:XP:(:=)X):D:>.<>_<
      =_=:|:?3_3:p:;_;^U^*^^*:=/::*::b::f:

  •   

Last 10 Posts [ In reverse order ]

  1. Posted 25/12/2021, 13:05
    Lo storico Marco Vigna ha scritto un libro sul brigantaggio postunitario di grande interesse (Brigantaggio italiano. Considerazioni e studi nell’Italia unita; Interlinea, Novara, 2020). Giustamente Alessandro Barbero nella prefazione ha scritto che questo lavoro se non è la parola definitiva sulla storia del brigantaggio postunitario, costituirà però d’ora in poi un punto di riferimento imprescindibile per chi voglia interessarsi a questa vicenda. Secondo lui la percezione del brigantaggio meridionale postunitario nella società italiana odierna è oggetto di una inquietante operazione di stravolgimento della realtà e reinvenzione fraudolenta della memoria, che stravolge il ricordo di quella vasta e terribile ondata di violenza, le attribuisce intenzioni e motivazioni in gran parte immaginarie, e impedisce di ricavarne insegnamenti utili per capire davvero le contraddizioni irrisolte del nostro Paese.
    Per Barbero questa nuova interpretazione pretende di mettersi in continuità con un’altra e precedente reinvenzione, diffusissima nella cultura popolare, che presentava il brigantaggio, in forme edulcorate e romanticizzate, come un impulso generoso contro la povertà e la disuguaglianza, contro l’avidità della classe dirigente e l’oppressione di uno Stato lontano e indifferente. E’ un’interpretazione, quest’ultima, del tutto insufficiente a rendere conto di un fenomeno che, come dimostra in modo esauriente la poderosa ricerca di Marco Vigna, fu innanzitutto un fenomeno criminale di straordinario e gratuita ferocia; e tuttavia può avere un fondo di verità, tant’è vero che ne hanno sempre tenuto conto coloro che hanno cercato di capire le ragioni del brigantaggio meridionale, a partire dai politici e dai militari che lo hanno combattuto. Oggi, però, la memoria e anzi la celebrazione del brigantaggio sono ostaggio di un movimento neoborbonico che le inserisce in un quadro consolatorio del tutto inventato, col risultato di atrofizzarne proprio le potenzialità di critica sociale; l’enorme numero dei morti ammazzati in quegli anni è composto dalle vittime dei briganti, non solo dai morti della repressione: le cronache di quegli anni riportano ogni giorno assalti a masserie, contadini trucidati e donne violentate – dai briganti, non dai bersaglieri, come vorrebbe far credere Pino Aprile.
    Scrive Marco Vigna che lo studio del banditismo e del brigantaggio ha interessato e affaticato generazioni di studiosi, non solo storici, ma anche antropologi, sociologi, giuristi, oltre a coinvolgere politici, giornalisti e pubblicisti; in Italia, il fenomeno brigantesco è durato quantomeno dal Medioevo sino alla fine del secolo XIX e ha compreso, con maggiore o minore intensità, un poco tutte le aree geografiche, anche se ha raggiunto il suo massimo grado nel Meridione. Nonostante esista una folta bibliografia anche sul brigantaggio medievale, moderno e dell’epoca borbonica, è in particolare quello postunitario ad avere assunto un’importanza di rilievo nella storiografia, al punto che è invalsa la formula (in verità discutibile) di “grande brigantaggio” per indicarlo; il suo studio ha acquistato rilevanza, anche per essere stato sovente esaminato in rapporto ad altri temi dibattuti quali la formazione dello stato nazionale, la questione meridionale e la struttura sociale del Mezzogiorno.
    Secondo Vigna talora gli studiosi del brigantaggio hanno sottovalutato o evitato l’analisi di che cosa i briganti facevano, per concentrarsi invece sull’operato dei militari, sui dibattiti politici, sulle condizioni sociali del Mezzogiorno, sulle norme giuridiche o altro; è una scelta metodologicamente accettabile, poiché è impossibile dire tutto, ma al tempo stesso ne consegue una limitazione; ognuna di queste tematiche ha la sua importanza e, a seconda del soggetto prescelto e della metodologia impiegata, può anche essere centrale. Pure, se ci si interroga sulla natura profonda del fenomeno è indispensabile osservare il brigante in azione, poiché soltanto il suo comportamento effettivo consente di cogliere la sua personalità e i moventi del suo operato; in caso contrario, si rischia di attribuire ai briganti i pensieri, le convinzioni, le motivazioni che un qualche storico o scrittore, a distanza di tempo e senza il supporto di alcuna fonte, immagina che avessero. L’operato essenzialmente criminale dei briganti, inclusi quelli attivi dopo il 1860, finì con l’essere apertamente denunciato a partire dal 1863 dagli stessi pubblicisti borbonici e clericali, che d’altronde già in precedenza s’erano trovati in forte imbarazzo nel dover spiegare la totale assenza di legittimisti alla testa delle bande, che non fossero i pochissimi nobiluomini stranieri al soldo di Francesco II, quali Borjes e Tristany, che comunque ebbero davvero scarso e breve ruolo nel brigantaggio.
    Si chiede Vigna: il brigante medio era un guerrigliero che combatteva per un ideale oppure un criminale? La risposta per lui può essere soltanto una: il brigante era abitualmente un delinquente; la prova fondamentale di ciò risiede nelle azioni concrete dei briganti, che furono in schiacciante prevalenza atti di criminalità comune contro civili. Gli atti briganteschi in stragrande maggioranza sono stati aggressioni a persone o proprietà di civili. Il bersagli abituale dei briganti non erano i militari e neppure gli amministratori, i politici, in breve i rappresentanti dello Stato, ma la cosiddetta “gente comune”. Talora le bande si scontravano con l’esercito, talvolta il combattimento era cercato, ma si trattava di eccezioni; la maggioranza delle azioni delle comitive non coinvolgeva le unità del Regio esercito o della Guardia nazionale, ma civili indifesi. Anzi, solitamente i briganti cercavano quanto più possibile di evitare gli scontri con i loro “cacciatori”. Ipotetici guerriglieri si sarebbero comportati in modo opposto; aggredire civili indifesi per eseguire estorsioni, sequestri di persona, rapine, stupri ed evitare quanto più possibile gli scontri con le forze dell’ordine è il comportamento caratteristico dei criminali. La similitudine di questi gesti, che si ripetevano pressoché uguali di banda in banda, consente di formulare l’ipotesi che essi fossero consuetudini radicate nell’ambiente sociale del brigantaggio, che come altre comunità analoghe (si pensi ai carcerati, ai mafiosi, ecc.) aveva sviluppato sue forme di cultura date da usanze, pratiche (quale quello, che ricorre ossessivamente nelle fonti, del taglio delle orecchie dei rapiti), simboli (come i tatuaggi) ecc. Il cannibalismo potrebbe essere stato pertanto parte della subcultura brigantesca; l’antropofagia, che alcuni autori coevi al brigantaggio reputano essere persino piuttosto comune per i briganti, potrebbe essere stata pertanto un uso diffusosi per imitazione presso molte bande e perdurato almeno per più di mezzo secolo. Ma erano tutt’altro che rari gli stupri commessi dai briganti, atti per i quali sarebbe problematico trovare motivazioni politiche o ideali, o anche semplicemente motivazioni di ordine pratico connesse alle esigenze di sopravvivenza delle bande.
    Sostiene inoltre Vigna che in Campania, Calabria, Sicilia, nelle tre regioni storicamente segnate dalla presenza di organizzazioni di tipo mafioso, è esistito un rapporto simbiotico fra queste associazioni e molte bande di briganti, con passaggio d’aderenti dall’una all’altra, o la loro presenza simultanea in ambedue; tra briganti e mafiosi oltre all’indubbia simbiosi sociale esisteva una larga condivisione di pratiche e usi: le estorsioni, con la ritorsione su chi respingeva il ricatto; l’eliminazione dei testimoni; gli omicidi su commissione; gli scontri fra bande rivali. Inoltre si è potuto rintracciare un abituale legame triangolare che connetteva fra loro i notabili della borghesia (latifondisti, politici, ecc. in breve galantuomini), le mafie e molte comitive brigantesche; tale nodo che stringeva gruppi sociali in apparenza tanto lontani convergeva in manutengoli d’alta posizione sociale, che specialmente in Calabria erano l’autentica forza e sorgente del brigantaggio sebbene non fossero loro stesso briganti. Già in epoca borbonica la politica locale meridionale si era strutturata attorno a relazioni verticali di patronato e clientela; le fazioni si formavano per il controllo dell’apparato amministrativo e i sostenitori del gruppo dominante venivano ricompensati con impieghi e contratti. Il ricorso alla violenza sotto i Borboni era praticato regolarmente dai notabili e dalle élites locali per assicurarsi dai contadini il pagamento dei canoni e dei debiti, oppure per competere nel controllo delle amministrazioni locali.
    Scrive ancora Vigna che talora si è ipotizzato un collegamento fra le insurrezioni contadine nel Mezzogiorno e il brigantaggio, cercando di istituire un rapporto fra i due fenomeni o d’interpretarli in termini di analogia. Questa correlazione è stata postulata non soltanto da storici posteriori, ma anche da testimoni coevi del brigantaggio, militari, politici, giudici e da prima ancora del 1861 ma il presunto rapporto fra questione demaniale e brigantaggio, che è stato affermato anzitutto a opera di studiosi marxisti, deve essere respinto poiché le rivolte rurali e il brigantaggio furono diversi per ragioni sostanziali e in buona misura persino opposti. Le prevaricazioni signorili con illecite occupazioni di fondi agrari erano vecchie di molti secoli; esse erano avvenute già nel secolo XVIII, provocando per reazione piccole rivolte locali contro i feudatari, sparse in regioni diverse, come il Principato Ultra e le Calabrie. Le sollevazioni della comunità e il brigantaggio talora furono direttamente contrapposti, perché il primo era espressione delle classi popolari mentre il secondo era controllato dai feudatari ma la distinzione oppositiva fra brigantaggio e moti rurali può essere meglio compresa comparandola con l’altra fra brigantaggio e classe dirigente, ossia con i legami interclassisti fra i banditi o briganti (solitamente di bassa condizione sociale) e nobili, ecclesiastici, grandi proprietari o anche ufficiali e funzionari statali. I membri del ceto dominante assai spesso riuscirono a porre sotto il proprio controllo le bande brigantesche oppure le crearono direttamente ai propri ordini.
    Vigna documenta anche che statistiche certe e incontestate contraddicono radicalmente l’ipotesi, talora avanzata, del brigantaggio quale presunta guerra sezionale fra Piemonte e Meridione oppure fra Nord e Sud. In realtà è banale constatare che l’esercito italiano era appunto tale e comprendeva uomini di ogni provincia e comune del regno, fra cui un numero di militari meridionali sicuramente superiore a quello sia di tutti i briganti stessi, sia dei militari delle province del vecchio regno di Sardegna; d’altronde, anche i prefetti, quindi i responsabili dell’ordine pubblico, furono in maggioranza meridionali nel Mezzogiorno ma pure i ruoli dell’Arma dei carabinieri, che ebbe una parte fondamentale nella sconfitta del brigantaggio grazie alla sua presenza capillare sul territorio e alla sua capacità investigativa, evidenziano una compresenza di uomini provenienti da diverse parti d’Italia, meridionali inclusi.
    Per Vigna l’esistenza di briganti sin dal secolo XVI e prima ancora e la loro interpretazione giuridica e anche linguistica come criminali sono ambedue saldamente provate sulla base di molteplici fonti. E’ vero che il termine brigante convive nei secoli con molti altri sinonimi ma la quantità di fonti che documentano la presenza massiccia e continua di briganti, banditi, fuorbanditi (altro termine impiegato in passato), malfattori, mali christiani (in latino, cristiani malvagi, formula usata sin dal Medioevo per designare criminali riuniti in bande), scorridori di campagna, grassatori, bravi (resi celebri dal Manzoni), sicari, ecc. è incalcolabile ed esse si ritrovano in abbondanza nelle ordinanze dei secoli XVI-XVII con le diverse Prammatiche, Bandi. Costituzioni, Circolari, Capitoli, contro le bande che imperversavano nel Mezzogiorno. Neppure la spietata guerra di sterminio condotta dal vicerè del Carpio contro i banditi riuscì a stroncare definitivamente quella che era un’idra sempre risorgente. Il brigantaggio continuò anche dopo le sue cruente campagne militari, protraendosi negli ultimi anni del dominio degli Asburgo di Spagna sul Meridione italiano, sotto l’effimero regno siciliano di Vittorio Amedeo II di Savoia, quindi nella breve parentesi in cui il regno di Napoli e quello di Sicilia divennero signoria del ramo austriaco del casato asburgico. Quando Carlo IV di Borbone conquistò l’Italia meridionale mediante il suo multietnico esercito mercenario, giunse quindi al possesso di due regni di Napoli e di Sicilia in cui la presenza di bande era endemica. La nuova dinastia regnante nella lotta al banditismo prese l’abbrivo dal corposo corpo giuridico anteriore e confermò o rimise in vigore, oppure rinnovò, decreti ed editti dei sovrani suoi predecessori sui troni di Napoli e di Palermo. Il brigantaggio continuò ad esistere nel Mezzogiorno sotto Carlo III, Ferdinando I (IV), Francesco I, Ferdinando II e infine Francesco II, ognuno dei quali dovette sia emettere decreti contro le bande, sia ordinare campagne militari.
    Per Vigna è banale constatare l’esistenza di un brigantaggio sotto i Borboni comparabile per imponenza a quello postunitario, soltanto di gran lunga più duraturo perché in grado di resistere, con inevitabili oscillazioni nella sua intensità, a ogni decreto e campagna militare periodicamente messi in moto. Ma è altrettanto scontato osservare che il regno delle Due Sicilie, ovvero prima ancora il regno di Napoli e quello di Sicilia, cercassero di distruggere le bande di cui disconoscevano abitualmente pretese e ideali politici (che sarebbero stati antiborbonici, ovviamente, essendo i briganti in armi contro lo stato del re Borbone) considerandole pure manifestazioni di delinquenza. Si ritrova pertanto una continuità nelle norme repressive del brigantaggio dal secolo XVI sino alla legge Pica, nonostante i diversi cambi di regime dinastico, l’abrogazione dell’Antico Regime, la soppressione dei due regni di Napoli e Sicilia nel 1815 e la loro fusione in una nuova entità, infine la nascita dello stato italiano con l’introduzione di un assetto politico costituzionale di matrice liberale. Se, a dispetto di tutti questi cambiamenti giuridici sostanziali e profondissimi, a cui andrebbero aggiunti quelli sociali, culturali, degli ordinamenti di polizia e militari, la legislazione contro i briganti aveva mantenuto un nucleo di fondo pressoché invariato, è probabile che anche il brigantaggio avesse conservato in questo arco temporale i medesimi componenti fondamentali.
    Scrive Vigna che talvolta si ritrova nella letteratura sul brigantaggio l’ipotesi preconcetta che (per cause ignote) lo Stato di diritto fosse stato abrogato o sospeso, per cui gli uomini chiamati a far rispettare la legge e l’ordine nelle province meridionali fossero lasciati liberi di fare tutto ciò che volevano ma la realtà è opposta, poiché la documentazione riporta numerosi casi di militari, anche di ufficiali, che sono processati per abuso di potere, talora assolti, talora condannati. Lo Statuto del regno d’Italia, le leggi dello Stato italiano, il regolamento disciplinare dell’esercito restavano in vigore anche nelle province in cui era applicata la Pica ed era possibile denunciare i militari che combattevano contro i briganti qualora si supponesse una loro violazione delle leggi; l’abuso d’autorità era esplicitamente condannato da specifici articoli del Codice militare ed erano sufficienti azioni anche minime, quale uno schiaffo, per portare a pene detentive persino per ufficiali. I membri dell’esercito inoltre erano soggetti anche alla giurisdizione della magistratura civile, oltre che a quella militare; tutto ciò equivale a dire che, giuridicamente, il Regio esercito era stato chiamato a svolgere operazioni di polizia su larga scala e non a combattere una guerra in una terra ostile. Gli abitanti delle province in cui era entrato in vigore lo stato d’assedio erano cittadini italiani, con i diritti annessi, e non nemici pubblici.
    La verità è che la giurisprudenza del regno d’Italia, come già avveniva in quella delle Due Sicilie, separava nella sua legislazione il brigantaggio, ritenuto delinquenza, dalla lotta armata rivolta a mutare forma del governo¸ le leggi, ma anche i mandati di cattura, le indagini, i processi e le sentenze distinguevano fra coloro che erano accusati di reati comuni e quelli che erano accusati di reati politici. I casi in cui vi sono uomini accusati di reazione oppure attentato al governo o reato politico sono rintracciabili, seppure rarissimi, in atti della magistratura, dei carabinieri, dell’esercito, ma sono distinti sia sul piano lessicale, sia su quello giudiziario dal brigantaggio; il regio decreto datato 17 novembre 1863 con cui Vittorio Emanuele concesse l’amnistia per intere categorie di reato, a cominciare da quelli politici e includendo la renitenza alla leva, escludeva però in maniera esplicita il brigantaggio. In altri termini, gli atti illegali di natura politica non erano giudicati atti di brigantaggio e viceversa.
    Sostiene Vigna che la legge Pica e la legge Peruzzi, la messa in stato d’assedio della maggioranza delle prefetture meridionali, l’imponente spiegamento di unità militari, la mobilitazione della Guardia nazionale, in breve tutta la macchina repressiva creata e messa in moto contro i briganti, erano rivolti (quantomeno nelle intenzioni e intendimenti dei politici e funzionari dello Stato italiano) contro criminali e non contro “politici”. Anche in questo, la giurisprudenza del regno d’Italia evidenzia una continuità perlomeno ideale con quella del regno delle Due Sicilie, in cui i reati di brigantaggio e quelli politici erano separati fra loro nella normativa. Il generale Carlo Filangieri, luogotenente del re Ferdinando II in Sicilia, scriveva il 16 febbraio 1850 ai sette procuratori generali delle Gran corti criminali siciliane e ai comandanti dei consigli di guerra, al fine di rispondere all’interrogativo «Se i latitanti per reati politici debbano annotarsi nelle liste di fuorbando», ossia in quelle dei briganti. La sua risposta era di «doversi per gli uni e per gli altri distintamente serbare la condizione e le norme rispettivamente richieste dall’ordinanza anzidetta e dalle leggi nella stessa invocate». Scorridori di campagna e politici andavano quindi tenuti distinti giuridicamente.
    Vigna documenta, inoltre, che esisteva nell’ambiente dei briganti del Meridione una sorta di canovaccio narrativo pensato per tentare di giustificare la loro esistenza: il mito del torto subito, che avrebbe spinto la vittima a diventare brigante. Molte testimonianze dei briganti stessi ricorrono proprio a questo costrutto stereotipato, che tuttavia sembra avere, abitualmente, una veridicità dubbia o nulla. Non a caso lo storico Alfonso Scirocco invita a cautela specialmente sull’evento decisivo della biografia del brigante, ossia la causa che lo ha condotto a tale condizione: “In particolare, nel caso dei briganti assurti alla notorietà si impone un prudente scetticismo su un elemento qualificante della loro biografia, sul primo delitto che ne segnò il destino, di solito conosciuto solo attraverso l’autogiustificazione degli interessati. Tocca allo storico distinguere tra la personalità autentica del bandito, generalmente proveniente dalla delinquenza comune, e la figura che ne traccia la fantasia popolare” [ALFONSO SCIROCCO: Briganti e società nell’Ottocento: il caso Calabria; Capone, Cavallino di Lecce, 1991, p. 44]. Secondo Vigna il torto subito che innesca per reazione l’adesione alla vita di brigante è un topos che si ripropone con inaspettata ripetitività in un discreto numero di fonti estrapolate da contesti storici piuttosto differenti tra di loro. Hobsbawm colloca l’ingiustizia subita quale prima componente della morfologia del bandito sociale: «il ladro gentiluomo non comincia la sua carriera di fuorilegge con un delitto, ma come vittima di un’ingiustizia o perseguitato per un’azione che l’autorità, ma non la sua gente, giudica criminosa» [E. J. HOBSBAWM: I banditi: il banditismo sociale nell’età moderna; Einaudi, Torino, 2002, p. 37]. Lo storico anglosassone riporta un breve catalogo di banditi su cui si sono propalate narrazioni corrispondenti allo schema prefissato: l’Angelo Duca detto Angiolillo, brigante settecentesco del regno di Napoli su cui aveva scritto un saggio Benedetto Croce; il cangaçeiro brasiliano Labareda; il famosissimo Pancho Villa del Messico…[Ibi, pp. 38 ss.] La veridicità storica di questa ipotesi di Hobsbawm è stata criticata e sostanzialmente respinta anche perché essa si fonda anzitutto sul folklore, ossia non tanto sulla realtà fattuale, quanto sulla posteriore ricomposizione favolistica o leggendaria; lo stesso creatore della categoria di social bandit ha successivamente puntualizzato che si tratta principalmente di un mito elaborato nell’immaginario del mondo rurale. Questo ricorso convenzionale all’idea dell’ingiustizia patita che spinge a diventare brigante, quindi a porsi fuori dalla legge, è certamente un topos letterario e culturale; la sua ripetitività strutturale (ovvero la sua morfologia che permane inalterata di cultura in cultura, nonostante le loro dissomiglianze linguistiche, letterarie, religiose ecc.) è il tipico processo per cui un personaggio storico reale diviene trasfigurato in una figura mitologica (che riunisce in sé una costellazione d’elementi sempre uguali organicamente collegati fra loro) richiamano puntualmente la fenomenologia descritta da Mircea Eliade secondo la quale ciò che è storico è trasmutato in mitologico nel pensiero religioso o nell’immaginario collettivo popolare.
    Scrive Vigna che la teoria già ottocentesca, posteriormente riformulata nel Novecento su schemi marxisti e con la categoria del bandito sociale, secondo cui la sproporzione nella ripartizione del reddito e della ricchezza (con i suoi addentellati di sottoccupazione, disoccupazione, malnutrizione, indebitamento ecc. per intere fasce sociali) avrebbe condotto a divenire briganti è riduttiva; fermo restando l’inesistenza del bandito sociale di cui si è detto, tale costruzione concettuale fatica a rendere ragione da sola sia della varietà di cause per cui una singola persona può divenire brigante sia dell’esistenza di banditi di provenienza sociale dalla nobiltà, dal clero, dalla borghesia, rintracciabili dal Medioevo sino al brigantaggio postunitario. E’ vero che i briganti popolani sono sempre stati la maggioranza assoluta, per quanto è possibile cogliere da statistiche parziali sulla loro origine e da dati empirici disaggregati, ma questo rispecchiava la composizione di quella piramide che fu per lunghi secoli la società meridionale, con una piccola minoranza d’aristocratici e alto borghesi, una media borghesia piuttosto circoscritta e una plebe di gran lunga preponderante numericamente.

Review the complete topic (launches new window)